Cesare Segre: un filologo romanzo, un Maestro.
Ricordo di Antonio Pioletti, Presidente SIFR

La scomparsa di Cesare Segre ha mosso e muove innanzitutto l’onda della commozione non solo per chi l’ha conosciuto e gli era collega e amico: chi ha studiato e si è formato sui suoi lavori scientifici e chi ne ha seguito la fitta rete d’interventi per recensire opere e studi, per segnalare novità culturali, per prendere posizione su grandi questioni etico-politiche, avverte un senso di vuoto, quasi di stupore al pensiero che non sia più tra noi. Lo sarà, è facile prevedere, con il segno del suo profondo e variegato magistero, con l’esempio che ha offerto, come un dono, del nesso che deve vigere fra scienza e vita.

Il nuovo secolo ha quattordici anni, e quando nel 1985 Italo Calvino pensava al suo approssimarsi nella lezione dedicata alla Leggerezza ebbe a scrivere: «Così, a cavallo del nostro secchio (il riferimento è al racconto di Kafka Der Kübelreiter, n.d.r.), ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, la cui virtù questa conferenza ha cercato d’illustrare» (Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988, p. 30). La leggerezza in quanto dislocarsi dell’intelligenza in un punto di vista ‘altro’, il «guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica» (ivi, p. 9). E all’approssimarsi del nuovo millennio, nel 1999, Cesare Segre pubblicò per Einaudi Per curiosità. Una specie di autobiografia, e la ‘giustificò’ negandosi come personaggio esemplare, come modello, ma riferendosi piuttosto ad altra occorrenza: «(…) sono i tempi terribili in cui ho vissuto, è la prospettiva in cui questi tempi mi hanno posto mio malgrado, che meritano forse di essere conosciuti da chi è più giovane. La mia attività di critico e di teorico della critica mi ha poi reso partecipe di episodi culturali determinanti e fatto frequentare studiosi che a questi episodi hanno dato un apporto anche notevole. Forse questi motivi possono legittimare la mia prova autobiografica» (p. 3).

Leggere Per curiosità è un viaggio lungo il Novecento: l’autobiografia diviene scrittura di storia vissuta, di storia di eventi tragici e di rinascite, di storia delle speranze e delle delusioni, di storia della cultura, della critica letteraria e dei grandi critici, di storia della filologia e dei grandi filologi, di storia della filologia romanza. Vi si riflette come dramma di tutti la tragedia delle persecuzioni anti-ebraiche, il funereo cielo nero dei campi di concentramento, gli incubi notturni che irrompono di milioni di uomini e donne resi scheletri. La bicicletta che passa il confine fra Avigliana e Auschwitz, il lucido e vibrante rivolgersi a Giovanni Paolo II che il 13 aprile abbraccia il rabbino Toaff. Vi si riflettono i percorsi della formazione culturale e scientifica, quasi un Bildungsroman, il prezioso apprendistato filologico presso lo zio Santorre Debenedetti, a Giaveno, le prime ricerche, i primi spogli linguistici, la varietà delle letture che spaziavano dalla dialettologia italiana alla storia della lingua, dalla critica dei testi antichi agli esercizi di paleografia. Santorre Debenedetti morì nel 1948. Gli anni universitari a Torino, quando «Cesare avrebbe preteso che la storia parlasse non solo dei pochi che la dominano, e delle loro concezioni, ma anche delle sofferenze dei molti che la subiscono, o tentano invano di cambiarne direzione» (pp. 100-1). Gli anni universitari di Torino, l’interesse per la storia dell’arte che mai lo abbandonò, le lezioni di Ferdinando Neri, il suo saper coniugare, nella lettura di un testo, i livelli squisitamente letterari e le premesse filologiche che richiedono, e le lezioni di Benvenuto Terracini, un incontro decisivo per la conoscenza non solo della geografia linguistica, ma anche e soprattutto della storia della lingua italiana, nonché delle nuove prospettive aperte tra stilistica e linguistica che si riflettono nel lavoro di tesi di laurea (1950) di Segre su La sintassi del periodo nei prosatori italiani. Nel 1948 conosce Gianfranco Contini, l’altro suo grande maestro, che lo invita a partecipare al progetto sui Poeti del Duecento, le prime sollecitazioni strutturalistiche, le letture di Saussure, Trubeckoi, Brøndal. Il suo legame con l’Europa e l’Italia, la sua compartecipazione più che agli ideali (e alle scelte) di una terra-nazione, al destino degli ebrei della diaspora. Nel 1950 a Milano l’incontro con Maria Corti, D’Arco Silvio Avalle, Eugenio Montale, figure che, con altre altrettanto importanti, resteranno presenze costanti nella sua attività scientifica e culturale.

Ma lasciamo ora di seguire, nel disegnare un profilo per quanto sintetico del suo straordinario contributo al campo degli studi che aveva scelto, una linea strettamente biografica. Cesare Segre era un filologo romanzo e indicare la valenza di siffatta appartenenza disciplinare non vuol essere, non è il riferimento a un’etichetta per così dire burocratica, ma, al contrario, l’occasione per esplicitare, qualora ce ne fosse bisogno, che cosa, di teoria, di metodi, di linee di ricerca, si nasconda dietro questa ‘etichetta’. Com’è stato rilevato da diversi colleghi che sulla stampa, nei giorni immediatamente successivi alla sua scomparsa, hanno tracciato un suo profilo scientifico e culturale, egli amava definirsi philologus in aeternum: la filologia, il testo e la sua restituzione, la ricostruzione del suo costituirsi con la critica delle varianti e della sua tradizione, è alla base del suo lavorìo scientifico.

Ma il suo essere Maestro (magistru(m), da *magisteros, composto di magis e -tero) è dovuto, etimologicamente, al collocarsi, rispetto ad altri, in una dimensione scientifica che presenta qualcosa ‘di più’ e che, a mio avviso, è da rintracciare nella mirabile sintesi innovativa e originale che ha saputo elaborare dei grandi filoni critici che hanno attraversato il Novecento e nell’anelito civile che ha animato il suo essere studioso.

Il 1965 segna una svolta nel campo dei suoi interessi, della quale peraltro vigevano tutte le premesse, cioè l’interesse per gli studi della lingua e di linguistica e di critica stilistica. La cronologia delle sue pubblicazioni lo testimonia, come ricordato nel cap. XXIV di Per curiosità, dal titolo L’età dell’entusiasmo. Dal 1955 lavora all’edizione della Chanson de Roland, pubblicata in seguito nel 1971; al 1957 risale l’edizione de Li Bestiaires d’Amours di Richard de Fournival; al 1959 la Prosa del Duecento; al 1960 l’edizione dell’Orlando furioso di Ariosto (edizione commentata nel 1964); al 1968 quella de Il Libro de’ Vizî e delle Virtudi di Bono Giamboni (già pronta da circa dieci anni).

Nel 1965 è pubblicato il catalogo del Saggiatore con l’inchiesta su Strutturalismo e critica; dal 1966 la rivista «Strumenti critici»; nel 1969 I segni e la critica. Segre editore di testi e Segre strutturalista-semiologo: non bigamia, ma stretto intreccio, preciserà. È un fervore che segna un’intera fase di critica, fino alla presunta crisi degli anni Novanta, ed è bello ricordarla con le sue parole: «Ma pensa che magnifica avventura culturale: assimilare tutto il meglio che in Europa s’era fatto negli anni del fascismo, dallo strutturalismo linguistico a quello della Scuola di Praga attraverso il formalismo russo, pieno ancora del fervore d’una rivoluzione che presto si sarebbe trasformata in reazione e repressione totalitaria. Nomi come Šklovskij o Tomaševskij o Tynjanov o Propp o Mukařovský significavano, ognuno, straordinarie prospettive sulla letteratura; poi si sarebbero aggiunti Bachtin e Lotman. Così c’erano da conoscere, in ambito di critica sociologica, Lukács e Goldmann e Adorno e Benjamin (il maggiore di tutti); e il New Criticism americano, e la teoria della ricezione e la neoermeneutica, e così via. Un meraviglioso festino» (Per curiosità, p. 187). Si apriva non solo un campo teorico vastissimo, ma l’elaborazione di una fitta costellazione di saggi interpretativi, raccolti spesso nei «Paperbacks» einaudiani, il confronto con la contemporaneità, con la sua produzione letteraria e culturale indagata, fra due continenti, nell’alveo di uno studio delle forme nel tempo grande della letteratura.

Di siffatta straordinaria lezione non posso non richiamare, anche per quel che ha significato nella mia formazione, la valorizzazione da parte di Segre di due grandi studiosi russi, Bachtin e Lotman, di profilo scientifico diverso, ma i cui contributi concorrono a un approccio allo studio del testo che sappia coglierne la multidimensionalità. Segre, quando del primo non era ancora conosciuta la produzione critica, per via autonoma, in uno scritto che risale al 1963, colse le potenzialità, e la necessità, di «tener conto del tempo (della storia), ma nel suo aspetto di dimensione dell’opera; intendere l’opera d’arte, insomma, come un cronòtopo» (si veda Dal cronòtopo alla Chanson de Roland, in Id., Ritorno alla critica, Einaudi, Torino, pp. 259-72, alle pp. 259-60), e ne mise a frutto il fondamentale contributo per lo studio del romanzo, del suo pluristilismo, pluridiscorsività e plurivocità, della dialogicità, per arricchirne anche, e superarne, la lezione nell’analisi del romanzo medievale (Quello che Bachtin non ha detto. Le origini medievali del romanzo, in Id., Teatro e romanzo, Einaudi, Torino 1984, pp. 61-84). Specificò la differenza fra intertestualità e interdiscorsività. E colse le potenzialità dei contributi di Lotman e della Scuola di Tartu sui sistemi culturali e sul rapporto fra struttura del testo e modelli del mondo.

Segre ha esteso i confini della filologia romanza (già De Lollis, Parodi, Contini), per ‘curiosità’, per la sfida che pone la critica militante, convinto che la semiotica «può esser considerata uno sviluppo logico, o una riformulazione, della stilistica» (Per curiosità, p. 199), come riconosciuto da Spitzer e dimostrato ‘in forma implicita’ da Bachtin. Filologia e semiotica, un nesso che gli appare inscindibile: «Il succo di questa esperienza è nella visione, che ho poi illustrato a parte, degli stati successivi d’una tradizione testuale come diasistemi (…). Potrei dire che un impianto semiotico è quello che permette di rappresentare nel modo più limpido la convergenza tra l’analisi filologica del testo e la sua interpretazione» (ivi, p. 200).

Ma queste finestre che ho aperto, certamente poche rispetto alla vastità dei suoi interessi e agli insegnamenti che ne vengono, dall’ecdotica alla critica letteraria in tutti i suoi risvolti, resterebbero di numero fin troppo limitato se non ne aprissimo almeno un’altra che si affaccia sull’anelito di coscienza civile che anima la sua figura di studioso, di cittadino. Ne fa fede, tra l’altro, un’altra raccolta di scritti significativamente intitolata Tempo di bilanci. La fine del Novecento (Einaudi, Torino 2005). Una prima parte vi è dedicata a Per un bilancio del Novecento, con note storiche e di storia della cultura e delle letterature impreziosite da schede sulla narrativa, la seconda a Note per un bilancio morale, con schede di riflessione su Etica e letteratura e altre di argomento vario, e infine su narratori della Shoah. Il diagramma morale dell’Italia è tracciato a partire dalla «grave atonia morale» dominante (p. 52). Dall’«affermarsi di un sedicente liberalismo, che è in verità rozzo liberismo» che «ha messo sugli altari il Mercato, cioè la lotta darwiniana per la sopravvivenza portata nell’economia» (p. 53). Un tono pessimistico che trova comunque un auspicio, una speranza per una nuova fase di «fervore d’idee e di iniziative» (p. 56).

E infine, quasi il chiudersi di un cerchio, un ritorno al discorso sull’orrore della Shoah (Il Tragico e la Shoah nel romanzo del Novecento), all’appello a non limitarsi alla com-passione, alla sim-patia, senza porsi razionalmente il problema della comprensione complessiva dell’«orrore del programma di sterminio di un popolo» (p. 311).

Ha lavorato fino alla fine, finché ha potuto: nel 2012 viene pubblicato il Rimario diacronico dell’Orlando furioso (in collaborazione con Clelia Martignoni, Luigina Morini e Manuela Sassi), e riesce a vedere infine il Meridiano che gli viene dedicato, Cesare Segre. Opera critica, a cura di Alberto Conte e Andrea Mirabile, con un saggio introduttivo di Gian Luigi Beccaria, Mondadori, Milano 2014: qui ciascuno potrà trovare, con una scelta di suoi saggi, quei tanti riferimenti bibliografici che qui non potevano non essere limitati.

I suoi insegnamenti continueranno a vivere, un ottimo lascito… per il nuovo millennio.

 

Antonio Pioletti

(Pubblicato in «Pagine Ebraiche», 23 maggio 2014)