Alberto Varvaro è morto a Napoli il 22 ottobre 2014. Era nato a Palermo, dove ora è sepolto, nel 1934. Per quarant’anni è stato professore di Filologia romanza all’Università di Napoli, dove ha insegnato anche Sociolinguistica, mentre al vicino Istituto Orientale ha insegnato per qualche anno Filologia romanza e Filologia iberoromanza. Dal 2004 era passato dall’Università di Napoli Federico II all’Istituto Superiore di Scienze Umane.
L’elenco delle sue opere è imponente [1] e l’influenza dei suoi studi nei vari campi che ha praticato (ne parleremo presto) durerà nel tempo. Ma Varvaro non è stato solo uomo di studio. Il suo cursus honorum, impressionante, testimonia dell’impegno che fin da giovane ha dedicato al mondo degli studi a Napoli, diventata la sua città, in Italia e all’estero. Basti qui ricordare la sua partecipazione al Comitato ordinatore dell’Università della Basilicata, la presidenza di quello della seconda università di Napoli, il ruolo di pro-rettore dell’Università Federico II dal 1987 al ’93, la sua partecipazione alla riforma dell’Università secondo le linee europee dette di Bologna, la presidenza della Société de Linguistique romane (1995-98) e quella della Società Italiana di Filologia Romanza (SIFR) dal 1991-94. Era membro dell’Accademia dei Lincei e della Crusca. L’elenco è largamente incompleto [2]. Ha fondato e diretto a lungo con cura esemplare la rivista “Medioevo romanzo” (1974-2007) e la collana di studi “Romanica neapolitana”. Ha organizzato innumerevoli congressi, a partire da quello internazionale di Linguistica e filologia romanza a Napoli nel 1974. A tanta attività non sono mancati i riconoscimenti, come in Italia il Premio Nazionale del Presidente della Repubblica nel 1998, e fuori d’Italia le lauree h.c. a Chicago e a Heidelberg.
Ma vediamo la personalità scientifica. Filologo romanzo, con il prestigio che gli veniva dalla ampiezza e dalla qualità della sue pubblicazioni, ha influito come pochi altri sulla vita della disciplina. Ha confermato l’opzione medievalistica prevalente che ha assunto fin dalle origini la filologia romanza in Italia. Ma ha provato l’attrazione di una definizione più estesa, comune in altri paesi (in cui peraltro la filologia romanza o romanistica non è più una disciplina, ma un campo di discipline). Così nel manuale che ha scritto nel 2003, all’indomani della riforma che invitava a ripensare limiti e carichi dei curricula di studi universitari, ha proposto un’introduzione (veramente ottima) non medievalistica e non filologica alla disciplina: è la Linguistica romanza. Corso introduttivo (Napoli, Liguori, 2001, e, rielaborato, 2002) [3]. Chiamato a far parte di un comitato ministeriale, ha contribuito al nuovo assetto istituzionale della Facoltà di Lettere. Suppongo che sia stato lui a suggerire la dizione “Linguistica e filologia romanza” come etichetta generale del settore disciplinare in vigore. Credo che Varvaro fosse preoccupato che lo scarso sviluppo della linguistica romanza in Italia, a fronte peraltro del vivace rigoglio della filologia, isolasse l’Italia dall’Europa universitaria, in cui con il tempo le proporzioni si erano rovesciate [4]. Dopo tanti anni dedicati alla filologia, ai testi antichi, soprattutto francesi e spagnoli, con questo manuale Varvaro tornava alla materia cui aveva dedicato una delle sue prime opere (al suo primo capolavoro, si può dire): Storia, problemi e metodi della linguistica romanza (Napoli, Liguori, 1968) [5]. Questo libro (anticipato da dispense per gli studenti) svolgeva e dettagliava per 400 pagine il percorso storico della linguistica romanza, chiarendo e arricchendo quello che si trovava in trenta serrate pagine nell’opera classica Le origini delle lingue neolatine di Carlo Tagliavini del 1962) [6]. Non era, come spesso accade, una scorribanda in paesi e secoli diversi, ma un quadro chiaro e ragionato, ben spaziato nel tempo, ricavato da letture di prima mano. Il libro si concludeva già, con tempismo sorprendente, con un quadro della grammatica generativa (le Strutture della sintassi di Chomsky erano apparse nel 1957 e gli Aspetti nel 1965: ma se e come queste opere si sarebbero potute integrare nella linguistica romanza, disciplina storica, non era ancora chiaro). Come per i già citati Iorgu Iordan e Tagliavini nei loro manuali, come per Walter von Wartburg (un riferimento sicuro per Varvaro) [7], o per Heinrich Lausberg, anche per Varvaro era chiaro che in linguistica il metodo-storico comparativo aveva fatto il suo tempo. Il libro di Varvaro mostrava che già in passato erano state proposte soluzioni e suggestioni alternative, come quelle di Hugo Schuchard, ma al tempo stesso il futuro rimaneva incerto. In compenso gli era chiaro, come era chiaro agli autori precedenti, che la linguistica idealistica non offriva nessuna soluzione.
Il modo di procedere di Varvaro che abbiamo appena notato, da una prima edizione in dispensa universitaria a una successiva come libro, è qualcosa che vedremo ripetersi diverse volte in lui. Questo fatto dipendeva certamente dalla grande mole e dall’ambizione di completezza dell’impresa concepita, che poteva essere portata a termine solo a gradi (ma intanto con le dispense gli studenti avevano qualcosa in mano da studiare), ma anche dal fatto che nell’attivissimo Varvaro i progetti si moltiplicavano e si accavallavano, e che la sua vita era divisa su vari fronti, scientifici e pratici.
Più tardi il suo interesse linguistico si è rivolto prevalentemente alla sociolinguistica, che negli Anni Sessanta si affermava in Italia sulla scia delle novità americane. Ricordo di Varvaro la bella raccolta La parola nel tempo: lingua, società e storia, Bologna, Il Mulino, 1984. Un saggio centrale di questa raccolta è quello sulle cause dell’arcaicità linguistica della Lucania [8], in cui mostra la rigidità e talvolta l’errore nel quale inducono spesso le cosiddette “norme areali” di Matteo Bartoli con la loro astrattezza, alla quale Varvaro oppone lo studio demografico e sociale basato su fonti documentarie. Nel caso della Lucania l’arcaicità linguistica non è effetto della scarsezza di comunicazioni, intervenuta in realtà solo in tempi relativamente recenti, ma di una secolare chiusura non fisica, ma sociale e psicologica delle comunità locali estranee all’attrazione dei grandi centri urbani innovatori. Si vede così come la considerazione sociale arricchisca gli schemi naturalistici della evoluzione linguistica.
Fin da giovane Varvaro aveva intanto imboccato con passo sicuro la via della pratica filologica. La sua prima opera in assoluto, nel 1957, è stata l’edizione critica del Libro di varie storie di Antonio Pucci (Palermo, presso l’Accademia). Nel 1960 pubblica il canzoniere del trovatore provenzale Rigaut de Berbezilh (Bari, Adriatica), originariamente la sua tesi di perfezionamento alla Scuola Normale di Pisa. Per fare una parentesi biografica, Varvaro aveva, infatti, abbandonato Palermo, dove era cresciuto e aveva studiato, particolarmente con Ettore Li Gotti. Nei suoi Wanderjahre che erano anche stati, come si conviene, dei Lehrjahre, aveva soggiornato, dopo Pisa, a Barcellona e a Zurigo, dove aveva acquistato una dimensione internazionale che aveva riportato con sé al suo ritorno in Italia e che non avrebbe più perduto. Tornando alla filologia, pubblica nel 1964 le Premesse ad un’edizione critica delle poesie minori di Juan de Mena (Napoli, Liguori, 1964). Torna alla pratica ecdotica nei suoi ultimi anni pubblicando, con Peter Ainsworth, la seconda parte delle Chroniques di Froissart (Chroniques livres III et IV, “Lettres Gothiques”, 2004; la IV parte uscirà a sua cura presso l’Académie Royale di Bruxelles). Froissart gli piaceva. Ricordo una conferenza padovana in cui Varvaro, ultrasettantenne, esercitava con divertimento la sua scienza e il suo spirito ironico, ormai pervasivo, sul tema di Froissart e dell’edizione della sua opera. Così, accanto a queste edizioni, Varvaro pubblica l’interessante, vivacissimo e nuovo La tragédie de l’histoire. La dernière oeuvre de Jean Froissart, riabilitazione e ritratto del grande cronista giudicato spesso dagli storici per la prima parte meno valida, più ricapitolatoria, della sua opera, mentre è l’ultima che ci rivela a pieno la sua grandezza.
Se l’edizione critica è la prova della verità del filologo, non può certo esaurirne l’attività. Varvaro, che vediamo spesso calato nell’empirismo filologico, aveva in realtà una testa teorica. Così sono stati numerosi e autorevoli negli anni i suoi interventi di ecdotica, sia generali che applicati a singoli casi [9], cosicché non deve sorprendere che Varvaro, a un’età in cui avrebbe potuto ormai riposarsi sugli allori, abbia pubblicato la Prima lezione di filologia (Roma-Bari, Laterza, 2012), che espone i principi della edizione critica esemplificandoli attraverso casi tratti dalla tradizione manoscritta romanza medievale.
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Con i suoi studi Varvaro ha coperto un’area vastissima del dominio romanzo, e principalmente: latino medievale, spagnolo, catalano, provenzale, francese antico e francese medio, italiano (cioè volgare toscano, come nel caso di Pucci, sopra nominato), volgare siciliano e storia linguistica dei volgari dell’Italia meridionale.
Anche al di fuori di queste aree, in campi da lui meno battuti, Varvaro ha dato contributi importanti, come per es. nel latino volgare. Ricordo, perché vi ho assistito io stesso, la relazione intitolata Documentazione e uso della documentazione in un congresso sul latino volgare organizzato a Venezia da József Herman nel 1996, in cui con un’analisi serrata di pochi fatti linguistici e epigrafici pone un serio punto di interrogazione sulla gran parte degli studi in materia, condotti generalmente con una metodologia ben poco rigorosa (benché anche un’autorità come Herman esercitasse uno stretto controllo sulla faciloneria con cui i dati venivano spesso estrapolati dal loro contesto geografico e cronologico) [10]. Nel dominio del latino medievale Varvaro pubblica una delle sue opere maggiori Apparizioni fantastiche. Tradizioni folkloriche e letteratura nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1994 (di nuovo una ripresa di un corso universitario): l’opera è dedicata alla materia folklorica presente particolarmente nella letteratura francese antica, ma anche al De nugis curialium dell’inglese Gautier Map: letteratura medievale in latino e in volgare sono esaminate assieme.
Diverse delle lingue che ho ricordato prima [11] appaiono assieme in un’opera tra le più riuscite, e anche gradevoli alle lettura, di Varvaro, il volume Letterature romanze del Medioevo. Come altre volte, Varvaro aveva concepito e cominciato a realizzare quest’opera nel corso del suo insegnamento, dal 1966 al ’68, come ricorda lui stesso, fornendo come al solito delle dispense. Gli anni immediatamente seguenti al 1968 non favorivano certo la tranquillità per ridurre la dispensa a libro. L’opera rimane così inedita, probabilmente pronta o quasi pronta, per parecchio tempo. Il libro corrispondente è apparso in spagnolo nel 1983 e in italiano, presso il Mulino, solo nel 1985. Nell’Introduzione Varvaro si dispiace del ritardo metodologico accumulato dal libro nel corso degli anni di attesa, ma io stesso, che l’ho sperimentato come testo d’insegnamento efficace e affascinante parecchi anni dopo, lo trovo uno dei suoi migliori, e ancora oggi non mi sembra per niente invecchiato. La struttura del libro, costellato di testi commentati, ricorda in parte (ed è un caso raro) quella di Mimesis di Auerbach, un autore che Varvaro ha ammirato e su cui, pur essendo meno di altri colleghi dedito alla storia della materia, ha scritto nel 1987 [12].
Lo spagnolo antico è stato fin dagli inizi della sua carriera al centro delle preoccupazioni di Varvaro, sia, penso, per simpatia e attrazione sia per la collocazione della sua sede di insegnamento, Napoli (per questo ha poi promosso anche in particolari gli studi sul catalano della Cancelleria napoletana). Agli inizi sta una grande opera istituzionale, la grande, tripartita, Filologia spagnola medievale. I: Linguistica, II: Letteratura, III: Antologia, prima in dispense (1965), poi a stampa (Napoli, Liguori). È un’opera che ha reso grandi servizi alla filologia spagnola nelle nostre Università, e che si è affiancata autorevolmente alle grandi opere spagnole con simili finalità. Con Carmelo Samonà, palermitano come lui, professore a Roma, ha scritto La letteratura spagnola. Dal Cid ai Re Cattolici, Firenze-Milano, Sansoni-Accademia, 1972.
Altrettanta attenzione Varvaro ha prestato al francese antico, così come è nella tradizione della grande romanistica tedesca (a cui in fondo Varvaro si rifaceva) e internazionale. Il suo autore prediletto è stato Béroul, al quale ha dedicato una grossa monografia già nel 1963 (Il Roman de Tristan di Béroul, Torino, Bottega d’Erasmo, 1963; tradotto anche in inglese nel 1972) [13], per poi tornarci su molto tempo dopo, quando la sua opera era ormai diventata un classico (nell’articolo Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo in “Medioevo romanzo”, 25, 2001, pp. 312-46). Un’opera di carattere generale a fini universitari è l’Avviamento alle filologia francese medievale, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993 contenente una grammatica storica e un’antologia molto ricca di testi (già dispensa universitaria, negli anni ‘66-’68).
Molti e spesso fondamentali sono stati i contributi che Varvaro ha dato al siciliano, specialmente medievale. La ricerca di tutta una vita si è conclusa proprio alla vigilia della sua scomparsa con la pubblicazione del monumentale Vocabolario storico etimologico del siciliano (VSES), in 2 voll., promosso dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani e dalla Société di Linguistique romane, 2014. L’opera aveva conosciuto varie pre-pubblicazioni parziali, a partire dal Fascicolo di saggio del 1975 in collaborazione con Rosanna Sornicola, e poi nel 1986. Ma ricordiamo anche il Profilo di storia linguistica della Sicilia, Palermo, Flaccovio, 1979 e Lingua e storia della Sicilia, I: Dalle guerre puniche alla conquista normanna, Palermo, Sellerio, 1981, oltre a numerosi altri contributi puntuali.
Per finire questa rassegna, del tutto incompleta, ricordiamo infine che nel dominio catalano ha dedicato lavori a Raimon LLull e al Tirant lo Blanc (Note su Ramon Llull narratore, in Atti del Convegno Internazionale: Ramon Llull, il lullismo internazionale, l’Italia, a cura di G. Grilli, AION-R 34, 1992, pp. 199-207); El Tirant lo Blanch en la narrativa europea del segle XV, in“Estudis romànics”, 24, 2002, 149-67, in it. Momenti di cultura catalana in un millennio, a cura di Annamaria Compagna e altri, Napoli, Liguori, 2003, 487-500.
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Non possiamo non dedicare qualche riga al Varvaro istituzionale e organizzatore, e infine anche all’uomo. Varvaro ha dedicato un grandissimo impegno (e anche alcune pubblicazioni) all’assetto dell’Università [14]. Del suo impegno sul fronte della scuola e in particolare del rinnovamento dell’insegnamento grammaticale, tema che si era fatto sensibile in particolare negli Anni Settanta e che più tardi è ricaduto purtroppo, mi sembra, nell’indifferenza generale, testimonia una sua opera a destinazione scolastica: La grammatica e l’uso. Grammatica italiana per le scuole medie superiori, Napoli, Liguori, 1978, uno dei pochi esempi di come avrebbe potuto cambiare, riformandosi senza rivoluzioni, la pratica della grammatica italiana nella scuola.
Varvaro fondò nel 1974 a Napoli “Medioevo Romanzo”, confermando il ruolo fondamentale che il polo napoletano aveva già avuto nella vita della disciplina con la rivista “Filologia romanza” fondata da Salvatore Battaglia. Non occorre che mi dilunghi sui meriti di questa rivista, caratterizzata tra l’altro, cosa non scontata, dalla massima puntualità nell’apparizione [15]. Per anni le buste delle bozze da correggere, che allora si affidavano alla cassetta delle lettere, arrivavano agli autori (se superavano le insidie e i ritardi delle poste italiane) con l’indirizzo scritto di mano del direttore su un bustone marroncino. Varvaro, che pure sapeva cos’era il gioco di squadra, faceva tutto da sé. La scrittura era piccola, regolarissima, quella che nell’ambiente si chiama grafia da filologo (che io sappia, quella di Bruno Migliorini, di Gianfranco Folena, di Cesare Segre…).
Ma il temperamento di Alberto Varvaro, quello no, non era temperamento da filologo! Supposto che un temperamento da filologo esista, e sia fatto, come si potrebbe pensare, di tranquillo spirito di osservazione, di giudizi pacati e magari di una certa rassegnazione davanti agli uomini come davanti ai testi, Varvaro non ne era certo dotato! Era dotato invece di grande determinazione ed esattezza, e procedeva nelle sue cose con ordine e sistematicità, ma con le persone vive il suo carattere era irruente, la sua parola corrosiva, il suo spirito caustico. Lo stato delle cose del suo e nostro paese, dell’Università (a cui portava un amore tanto profondo quanto ben nascosto), offrivano materia in abbondanza al suo spirito combattivo. Dotato di una dialettica abile e appassionata, se ve lo trovavate avversario, sapevate che molto difficilmente avreste avuto ragione di lui. Ma nelle grandi e piccole questioni, dovevate anche sempre chiedervi se in realtà per caso non fosse lui, e non voi, ad avere ragione. Varvaro era animato da un profondo spirito di giustizia, affinato per orgoglio e spirito di contraddizione in un ambiente poco favorevole. L’etica del lavoro, per questo siciliano vissuto a Napoli, era quella calvinista. Ha allevato una squadra magnifica di allievi, che ora fanno parte del nerbo migliore della nostra materia: loro, assieme ad altri, piloteranno sicuramente con destrezza il suo futuro. Se la filologia romanza avrà un futuro “varvariano” potremo dirci soddisfatti.
[1] Vedi in rete la sua Bibliografia al link http://www.aibl.fr/IMG/pdf/varvaro_biblio_2013.pdf (aggiornata al 2013)
[2] Per maggiore completezza, vedi il curriculum di Varvaro nel sito dell’Associazione Sigismondo Malatesta, di cui era stato socio fondatore:
http://www.sigismondomalatesta.it/persona.asp/A101=48
[4] Nel 2008 Varvaro aveva fondato, nell’ambito della “Société de linguistique romane”, la scuola estiva di linguistica romanza di Procida per la formazione linguistica dei giovani romanisti, non solo italiani in questo caso.
[6] L’impostazione di Varvaro veniva così a somigliare piuttosto a quella dell’Introduzione alla linguistica romanza di Iorgu Iordan del 1932, che ha avuto una larga diffusione europea nella versione in inglese rivista e adattata da John Orr, 1937 (tradotta in italiano solo dopo Tagliavini, nel 1973).
[9] Per es. La teoria dell’archetipo tristaniano, in “Romania”, 88, 1967: 13-58, eCritica dei testi classica e romanza, del 1970, più volte ripresa, con la fertile distinzione tra tradizione attiva e tradizione quiescente. Si può considerare qui anche il libro recente Adultèri, delitti e filologia. Il caso della baronessa di Carini, Bologna, Il Mulino, 2010, che rappresenta un minuto lavoro filologico sul testo colto elaborato da Salomone Marino a partire da fonti popolari. Del tema si era occupato in una lontana recensione del 1964 a A. Rigoli, Le varianti della ‘Barunissa di Carini’ raccolte da S. Salomone-Marino, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 1963, in FeL 10 (1964): 440-8.
[10] In La transizione dal latino alle lingue romanze, a cura di József Herman, Tübingen, Niemeyer, 1998, 67-76. Varvaro ha anche condotto una vivace polemica contro le tesi di uno studioso come Roger Wright che vedeva nel latino tardo un romanzo precoce travestito (un’eco se ne trova in Il latino e la formazione delle lingue romanze, cit. sopra nella nota 3). Ed è solo un caso tra gli altri in cui Varvaro ha affrontato a viso aperto con tutta la sua scienza studiosi che offrivano tesi affascinanti e innovatrici, ma le cui idee non gli sembravano ben fondate.
[11] Manca, deliberatamente, l’italiano (ma appare, seppur brevemente). Appaiono il galego, lo spagnolo, il catalano, il provenzale e il francese.