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Società Italiana di Filologia Romanza

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GIUSEPPE TAVANI

I canzonieri latitanti della penisola iberica

 

Di seguito è disponibile il testo della lectio magistralis su "I canzonieri latitanti della penisola iberica" che il prof Giuseppe Tavani ha tenuto il 6 ottobre scorso, a Napoli, in occasione dell'incontro organizzato dalla SIFR. La lezione è in corso di stampa per il numero 3/2007 di Studj romanzi : al prof. Tavani e al direttore della Rivista, prof. Fabrizio Beggiato, vanno pertanto i nostri più vivi ringraziamenti per questa preziosa anteprima. (Luciano Formisano, Presidente della Società Italiana di Filologia Romanza - SIFR)

 

Una mappa dell’Europa Occidentale, in cui fossero segnate le aree di confezione o di provenienza dei canzonieri, pervenuti più o meno integri o per fragmenta, della poesia lirica romanza dei trovatori e dei giullari provenzali, risulterebbe – come tutti sappiamo – punteggiata in misura notevolmente diseguale, con una presenza più fitta nell’Italia centrosettentrionale, soprattutto tra Veneto ed Emilia, e molto più rada nella stessa Occitania e, quel che più interessa, nella penisola iberica, dove le uniche raccolte di poesie provenzali superstiti, o di cui si possa in qualche misura ipotizzare la presenza, sono riconducibili esclusivamente all’area catalana. Qui, infatti, sono stati confezionati i canzonieri V[1], Sg[2] e Vega-Aguiló[3], oltre al frammento Mh[4], ai quali – ma solo come testimonianza indiretta – vanno aggiunti i fogli di pergamena ricuperati da Miquel Pujol nell’Archivio Storico di Girona, dove servivano di coperta ad alcuni libri notarili di Castelló d’Empuries[5]. Dei primi tre sono ora disponibili nuove, accurate descrizioni, corredate da indici minuziosi: di V pubblicata da Ilaria Zamuner nel 3° volume di «Intavulare»[6], di Sg elaborata da Simone Ventura e di Veg-Ag. da Anna Alberni Jordà – questi due ancora in corso di stampa[7], ma dei quali ho potuto prendere visione in formato elettronico. Sul volume curato da Ilaria Zamuner, e in genere sui problemi di V, Anna Alberni ha inoltre pubblicato un ampio studio in Cultura Neolatina[8].
Delle tre raccolte, la sezione iniziale di V – prodotto «capriccioso» di y, la definisce Avalle[9], ed esemplato su un modello difettoso, aggiunge Zufferey[10] – documenta una frequentazione ampia, anche se cronologicamente circoscritta, di prodotti lirici provenzali da parte di fruitori catalani: lo garantisce la presenza di nutrite serie di testi di Gaucelm Faidit, di Raimon de Miraval, di Bernart de Ventadorn, di Giraut de Bornelh, di Folquet de Marselha, di Peirol; ma anche di alcune microsezioni, intestate a Peire d’Alvernhe, Raimbaut d’Aurenga e così via. È interessante soprattutto notare la scarsa attenzione prestata dal compilatore a Bertran de Born e ad Arnaut Daniel (6 testi ciascuno, ma quasi tutti aggiunti successivamente da mano italiana[11]) e al primo trovatore catalano, Berenguier de Palazol, di cui è stata inserita una sola canzone; del tutto assente la prima generazione di trovatori, ad eccezione di Guglielmo IX, del quale però è stata selezionata un’unica canzone[12], trascritta inoltre quasi alla fine del canzoniere.
La confezione di V1 sembra però condizionata – più che dai gusti del committente o del compilatore – dalla struttura del suo ascendente diretto: un esemplare piuttosto disordinato, al quale il copista, o chi per lui, ha tentato di dare un assetto per nuclei organici, ma complicata anche da apporti contaminanti (occasionali?) di altre fonti, e forse da una stratificazione fatta per inserimenti di singoli testi o di brevi nuclei poetici in spazi lasciati liberi nella prima trascrizione. Una situazione dalla quale sembra tuttavia emergere un antigrafo principale, che probabilmente aveva già le caratteristiche del libro di mano, cioè di una raccolta organizzata in base a criteri selettivi di gusto più che alla effettiva disponibilità dei materiali.
Quanto a SgZ per Zufferey[13] – si tratta, come è noto, di un codice tardo, acefalo, introdotto da una CerveriSammlung (104 testi, di cui 97 in attestazione unica), alla quale sono stati aggiunti 118 testi di altri otto trovatori, tutti provenzali: privilegiati, Raimbaut de Vaqueiras che apre la serie con 20 componimenti attribuiti, e Giraut de Borneill con 72. Esigue, al confronto, le presenze di Bertran de Born (2), Arnaut Daniel (7), Guillem de Saint Leidier (4), Bernart de Ventadorn (3), Pons de Capdoill (7) e Jaufre Rudel (3). Conclude il volume una serie di 57 componimenti di poeti, tutti, tranne uno, riconducibili al Concistori tolosano. Una raccolta, dunque, a dir poco anomala, confezionata nel secondo quarto del XIV secolo, e destinata essenzialmente – almeno così sembra – al ricupero monografico di un trovatore catalano tardo, scarsamente rappresentato persino in canzonieri locali (Veg-Ag) o di area finitima (CR), e completata – non sappiamo se in seconda istanza o contestualmente – da una selezione esemplare della produzione lirica provenzale di epoca classica (in prima fila il prediletto Raimbaut de Vaqueiras e il raffinato Giraut de Borneill). E, come suggerisce Simone Ventura, la giustapposizione delle due sezioni e la posizione preminente assegnata alla produzione di Cerveri, sembrano intese ad assimilare il trovatore catalano ai grandi del passato, elevandolo in tal modo al rango di maestro di una nuova stagione poetica. In questa prospettiva, Sg può dunque considerarsi una sorta di corredo o supporto mnemonico-didattico, una raccolta di modelli proposti agli aspiranti poeti catalani della seconda metà del Trecento, gli stessi che si attenevano, per le loro canzoni, alle norme dettate dalle Razos de trobar di Raimon Vidal, dalle Regles de trobar di Jofre de Foixà e soprattutto dai coevi manuali tolosani e barcellonesi[14].
Il Vega-Aguiló – anch’esso acefalo e anch’esso trascritto da un esemplare più antico, come ritiene, con argomenti che mi sembrano solidi, Anna Alberni –  è un canzoniere soprattutto di poeti catalani dell’epoca di Pietro il Cerimonioso, nel quale sono inseriti blocchi di testi di numerosi trovatori provenzali e di qualche catalano, spesso citati per fragmenta, e comunque quasi tutti rappresentati da uno o due testi. Una miscellanea che attesta una presenza diffusa, ma superficiale, della tradizione trobadorica, di cui si avverte l’eco – ma abbastanza attutita – nei fogli ricuperati da Miquel Pujol nel fondo notarile di Castelló d’Empúries (oggi all’Archivio storico di Girona), contenenti poesia di tipo latamente trobadorico, opera per lo più di notai empordanesi attivi tra il 1288 e il 1330[15]. Tutti, comunque, di scarsa rilevanza per l’argomento di cui ci stiamo occupando.
Quanto al frammento madrileno Mh (4 carte sciolte ritrovate a Balaguer, in provincia di Lleida[16]), sarà sufficiente ricordare che vi si trovano trascritti, da mano sicuramente catalana, testi o spezzoni di testo di Bertran de Born, Falquet de Romans, Jaufre Rudel, Guillem Ademar, Giraut de Borneill, oltre alla prima strofa di un sirventese qui assegnato a Guillem Magret, altrove anonimo o variamente attribuito. Il supporto cartaceo, la singolarità di certe assegnazioni o l’assenza di altre, il colorito linguistico molto più fortemente catalanizzato, il livello di contaminazione e l’eterogeneità delle scelte lo collocano cronologicamente, a mio parere, a ridosso del Consistori tolosano o, forse meglio, della prima manifestazione di quello barcellonese. 
Quel che ritengo possibile desumere dagli elementi passati in rassegna è l’ipotesi che in area catalana circolassero sì canzonieri trobadorici, dai quali tuttavia non sembra siano state esemplate raccolte organiche. Si ha quasi l’impressione che, dai modelli eventualmente pervenuti in terre catalane, si sia preferito selezionare, e in misura limitata e frammentaria, gli autori e i testi preferiti dal committente – per V1 – o considerati esemplari in funzione di una fase culturale i cui protagonisti – appartenenti per lo più  a una borghesia emergente, ricca e politicamente accreditata  – avvertivano l’esigenza di rifarsi ai modelli tradizionali di un’arte poetica di grande prestigio.
Ciò non toglie che di un certo numero di canzonieri latitanti – cioè circolanti in Catalogna tra XII e XIII secolo e dei quali si è persa traccia, ma che potrebbero in qualsiasi momento riemergere, in tutto o in parte – si possa congetturare un’esistenza pregressa, denunciata e in parte documentata dal materiale sopravvissuto. Ritengo, ad esempio, che l’exemplar di V1 possa essere davvero esistito come oggetto concreto, forse persino di dimensioni maggiori del canzoniere marciano e non soltanto come fonte principale di questo; ed è sicuramente esistito anche un libro che raccoglieva tutte le opere di Cerveri, poi confluito in Sg: è infatti poco verosimile che la tradizione delle 104 composizioni del poeta sia rimasta allo stato fluido per quasi un cinquantennio, tra il 1285 e il secondo quarto del XIV secolo, soprattutto considerando che solo alcuni dei testi cerverini sono tràditi anche dalle raccolte linguadociane. Ed è evidente che anche a monte del Vega-Aguiló e del frammento di Madrid debbono essere esistite raccolte sulle quali i rispettivi compilatori hanno esemplato le loro antologie
In conclusione, in area catalana sono sopravvissuti almeno 3 canzonieri e il lacerto di un quarto, a fronte dei quali possiamo contare tre o quattro canzonieri scomparsi, o forse soltanto sommersi, e dei quali non si può escludere che una volta o l’altra riemergano, magari per frammenti: gli archivi notarili si rivelano a tutt’oggi una fonte non ancora esaurita di reperti di archeologia testuale.
Se l’area catalana conserva il ricordo di qualche latitante – o di chi ne ha preso il posto –, Castiglia e Portogallo ne sono assolutamente privi: non solo nessun reperto è emerso dagli archivi e dalle biblioteche della penisola centro-occidentale, ma nessuna notizia – neppure per udita – è mai trapelata dai documenti sulla esistenza e sulla circolazione di canzonieri trobadorici. E sì che già il matrimonio di Alfonso VIII con una figlia di Alienor d’Aquitania, aveva prodotto «una aluvión de poetas provenzales»[17], che da quel momento – e durante un secolo – presero a frequentare la corte castigliana (e castigliano-leonese), sia di Fernando III sia, soprattutto, di Alfonso X. Non è questo il luogo per citarli tutti, anche perché di certi componimenti dedicati o relativi ai re castigliani non sempre è agevole decidere se sono stati elaborati in praesentia o in absentia e se l’Alfonso menzionato è castigliano o catalano: comunque, limitandoci ai meno incerti, andiamo da Sordello a Giraut de Borneill, da Bonifacio Calvo ad Aimeric de Peguillan, da Raimon Vidal a Guillem de Berguedà e a Peire Vidal, da Guiraut de Calanson a Guillem Ademar, da Arnaut (Catalan?) a Guillem de Montanhagol, a Cerveri e a Folquet de Lunel, e via elencando. Ebbene, di tutti i trovatori probabilmente ospitati a corte, di tutti i componimenti che elogiano, incitano, criticano o vilipendono i re castigliani, non è rimasto in loco neppure un minimo reperto: è vero che Alfonso X non amava molto la poesia provenzale, ma non credo che questo sia sufficiente a giustificare l’assoluta assenza non dico di interi canzonieri, ma almeno di singoli Liederblätter, di qualche frammento, di fortunosi ricuperi da libri notarili, almeno di una noticina di un erudito che dica di averne visti. Nulla. Sono esistiti e hanno deciso di prolungare indefinitamente la loro latitanza, o non è mai intervenuto l’interesse specifico a lasciare, in loco, traccia scritta di queste poesie?
E lo stesso si può dire del Portogallo: addirittura non si ha neppure notizia di un solo trovatore o giullare provenzale che si sia spinto fino a Lisbona. Eppure, sul trono portoghese troviamo prima Alfonso III, un reduce dalla Francia, dove si era accasato con la contessa di Boulogne e di dove avrebbe potuto portare – nel bagaglio culturale che potrebbe avervi acquisito – qualcosa di più della eco delle novità letterarie delle quali doveva pur aver sentito parlare. E poi, a succedergli, quel Dionigi che ha affermato, in rima:

Quer’eu en maneira de proençal
fazer agora un cantar d’amor[18],

o ancora:

Proençaes soen mui ben trobar
e dizen eles que é con amor:
mais os que troban no tempo da fror
e non en outro, sei eu ben que non
an tan gran coita no seu coraçon
qual m’eu por mia senhor vejo levar[19].
 

Sembra fuori discussione che, per esprimere l’intenzione di poetare alla maniera provenzale o per rimproverare ai trovatori occitani di cantare l’amore solo nella bella stagione, Dionigi doveva aver accesso – o averlo avuto in tempi recenti – a un canzoniere dal quale ricavare quel minimo di conoscenze necessarie a mettere in rima affermazioni del genere. Un canzoniere in cui dovevano comparire almeno testi ad esordio primaverile, e che Dionigi non può aver visto che in Portogallo, considerato che non abbiamo nessun documento che riferisca di suoi spostamenti in Castiglia o, ancor meno, altrove. Forse un canzoniere che il padre Alfonso III potrebbe aver riportato di Francia, e al quale si può presumere abbiano attinto anche quelli tra i loro cortigiani che si sono distinti come trovatori in galego. Un canzoniere rigorosamente latitante, ma del quale non è detto che non affiori qualche residuo: gli archivi notarili, come si è detto, hanno già manifestato una certa disponibilità a restituire reperti, anche se in pessime condizioni.
Se l’assenza di canzonieri provenzali e perfino di lacerti o di testimonianze dirette o indirette della loro esistenza e della loro circolazione nell’Hispania centro-occidentale non può non lasciare perplessi, quel che più sorprende è la scarsità di raccolte strutturate o di copie monotestuali o di rotuli d’autore, della poesia trobadorica tipologicamente e linguisticamente peninsulare. Rarissimi sono i vettori  sopravvissuti alla caduta di interesse del pubblico delle corti sia regie (di Alfonso X e di Dionigi) sia signorili, che aveva assicurato e, fino al 1325, alimentato la diffusione della produzione lirica galega. Una scarsità che risulta tanto più singolare se la si confronta con la relativamente ampia documentazione indiretta di una loro presenza nella memoria collettiva o individuale – scritta o riferita – delle generazioni successive, dal Trecento alle soglie del Cinquecento. Tralasciando momentaneamente le altre testimonianze raccolte e analizzate da Carolina Michaëlis de Vasconcellos nel primo volume della sua edizione del canzoniere dell’Ajuda[20] – di alcune delle quali la stessa studiosa aveva suggerito la sovrapponibilità –, vorrei riferirmi in particolare alle due che hanno tutti i requisiti per essere valutate con attenzione.
La prima è quella del Marchese di Santillana, Íñigo López de Mendoza: nella lettera-proemio anteposta alle «obras suyas»[21], di cui fa omaggio al connestabile di Portogallo, Pedro, fratello del re Duarte, ricorda di «aver visto [ancora in giovane età, e in casa della nonna, donna Mencia de Cisneros] un grand volúmen de cantigas, serranas é deçires portugueses é gallegos, de los quales la mayor parte eran del rey don Dionis de Portugal..., cuyas obras aquellos que las leían, loavan de invençiones sotiles é de graçiosas é dulces palabras»: un ricordo avvolto nelle nebbie di un passato ormai remoto, dalle quali riaffiorano, oltre a quello del re, soltanto i nomi di altri due trovatori, Joan Soarez de Pávia e Fernan Gonzales de Seabra, portoghese il primo ma vassallo del re d’Aragona e attivo tra la fine del XII e i primi anni del XIII secolo, galego o forse leonese l’altro, vissuto intorno alla metà del Duecento[22].
È una testimonianza attendibile, perché mirata e circostanziata: il giudizio sulla poesia di Dionigi, attribuito a chi ne leggeva i versi – e quasi certamente il troppo giovane Íñigo li aveva solo ascoltati – e soprattutto la menzione di due poeti che non figurano tra i più noti e che appartengono a generazioni diverse, entrambe precedenti quella del re-trovatore, suggeriscono che il canzoniere in possesso dei Mendoza fosse davvero una raccolta molto ampia della produzione lirica galega e portoghese di tutto il Duecento, forse persino con frange cronologiche sia pure di poco precedenti e successive ai due termini estremi. Ma è anche una testimonianza imprecisa, non tanto perché il ricordo del futuro marchese si circoscrive a tre nomi, quanto per l’assimilazione dei generi antichi a quelli in auge al suo tempo: l’inclusione, accanto alle «cantigas», di «serranas é deçires», cioè di una tipologia poetica estranea alla prima lirica e di moda solo nella letteratura galego-castigliana e castigliana dalla seconda metà del Trecento, denuncia una sovrapposizione di categorie ben note al marchese a quelle delle «marinhas» e delle canzoni satiriche, più propriamente caratteristiche della poesia elaborata alle corti di Fernando III, Alfonso X e Dionigi. Dalle frasi successive della lettera («Después destes vinieron...») non si può stabilire con assoluta certezza se il «grand volúmen» visto dal giovane Íñigo – ma non credo proprio anche da lui sfogliato, come ritiene Carolina Michaëlis – comprendesse anche poeti del periodo detto galego-castigliano (Vasco Perez de Camoes, Ferrant Casquiçio e soprattutto «aquel grand enamorado Maçias»), o se a questo punto, come appare più probabile, il marchese si limiti a storicizzare le fasi successive alla prima produzione poetica ispanica di cui aveva visto o solo ascoltato alcuni specimina; ma anche accettando questa tutt’altro che remota ipotesi, cioè supponendo che il canzoniere di Donna Mencia si fermasse a Dionigi, è indubbio che le sue dimensioni  dovevano essere considerevoli, se includeva trovatori della prima generazione, di quella intermedia, e dell’ultima rappresentata dal re portoghese; benché – ed è questo un altro motivo di perplessità – l’assenza del nome di Alfonso X accanto a quelli dei tre trovatori ricordati è almeno sorprendente: del re savio, autore di ben 46 testi profani tràditi e di 420 canzoni mariane, il marchese si limita a dire: «yo vi quien vió deçires suyos, é aun se diçe metrificava altamente en lengua latina». A dimostrazione, se necessario, di quanto sia labile e ingannevole la fama affidata alla memoria, visto che di una produzione poetica alfonsina in latino non c’è né traccia concreta né altra menzione di alcun tipo.
Tornando al canzoniere di donna Mencia, il connestabile si deve essere chiesto, nel leggere la lettera del marchese, come potesse essere finito a Torre de la Vega o in un altro qualsiasi dei possedimenti e dei castelli dei Mendoza, un canzoniere così corposo. Forse addirittura più completo di quelli che Pedro sapeva custoditi nella biblioteca del re Duarte. E questa è la seconda delle testimonianze di rilievo sui canzonieri latitanti.
Nel catalogo, o meglio, nella sommaria lista dei libri che formavano la biblioteca regia portoghese al tempo, appunto, del connestabile Pedro, tre preziose quanto vaghe indicazioni bibliografiche documentano la presenza, tra le opere in possesso di Duarte, di altrettante raccolte relative alla lirica medievale ispanica[23]: le prime due (nn. 38  e 63 dell’elenco) sembrano riferirsi a due canzonieri monografici, rispettivamente «O livro das Trovas del Rey Dom Dinis» e «O Livro das Trovas del Rey Dom Afonso», mentre la terza, ancora più imprecisa, registra sommariamente (al n° 78) l’esistenza di «O Livro das Trovas del Rey». Pur non potendo escludere che i nn. 38 e 63 fossero in realtà – come d’altra parte aveva suggerito Carolina Michaëlis  – delle miscellanee introdotte l’una dal corpus dionigino, l’altra da quello alfonsino, ritengo più probabile che le due schede identifichino dei canzonieri individuali, la cui confezione era probabilmente giustificata, almeno per il re portoghese, non solo dalla mole non indifferente della sua produzione (137 testi pervenuti) ma anche dal rango socio-politico dell’autore: considerazione, quest’ultima, altrettanto valida per la raccolta alfonsina, anche se le cantigas profane tràdite a nome del re di Castiglia sono meno numerose di quelle del nipote (46, come si è detto).
Abbiamo dunque 4 canzonieri, dei quali i due monografici probabilmente già confluiti – non sappiamo se in tutto o in parte – nell’archetipo confezionato in Portogallo per iniziativa del conte di Barcelos, figlio naturale di Dionigi, il quale appunto elabora un «Livro das cantigas» che destina al nipote Alfonso XI di Castiglia: un legato la cui esecuzione potrebbe essere stata sospesa per la morte del donatario, avvenuta nello stesso anno (1350) della stesura del testamento. Quattro canzonieri, anzi cinque includendo la raccolta del conte, dei quali mi sembra lecito dichiarare la latitanza.
Non totale, però, anche se a questo punto il problema diventa intricato. Il «grand volúmen» visto dal quattordicenne Santillana in casa di Donna Mencia è il canzoniere del conte di Barcelos, emigrato comunque in Castiglia nonostante la scomparsa di Alfonso XI, oppure ne è una copia, abbastanza fedele vista la mole?  E se ne è una copia, il modello esemplato è rimasto in possesso della corte portoghese? Ma se invece si tratta dell’esemplare, la raccolta del 1350 è poi tornata in Portogallo e corrisponde ad uno dei Livros della biblioteca regia? Tutte domande alle quali non è possibile dare una  risposta, se non congetturale.
Ritengo personalmente probabile che il «Livro das cantigas» del conte sia stato acquisito quasi subito dalla corte e che qui sia rimasto fino almeno all’epoca di Alfonso V: e non è da escludere che ad esso si riferisca la scheda del catalogo «Livro das Trovas del Rey», una dizione in cui «del Rey» potrebbe in effetti riferirsi a Livro e non a Trovas, potrebbe cioè indicare il proprietario del canzoniere, non l’autore (o non solo l’autore) delle Trovas antologizzate. Da questo libro sarebbero poi state esemplate le due copie, parziali, che si presume siano all’origine dei canzonieri colocciani della Biblioteca Nazionale di Lisbona (B) e della Biblioteca Apostolica Vaticana (V). Che le copie siano state due – va precisato – è ipotesi mia, che non collide con quella di Anna Ferrari e di Elsa Gonçalves, sostenitrici di un modello unico per i due apografi italiani.
Di tutti questi canzonieri – cinque – si è perduta ogni traccia: tranne forse per un frammento rinvenuto, abbastanza di recente (1990), nell’Archivio di Stato di Lisbona, dove la coperta di un libro notarile del 1571 ha restituito un foglio pergamenaceo mutilo e abbastanza mal ridotto, nel quale sono trascritte sette cantigas de amor di Dionigi, corredate di supporto musicale[24]: caso unico, questo della notazione, che si affianca a quello, altrettanto unico, della Pergamena Vindel, in cui però solo sei delle sette cantigas de amigo del giullare galego Martin Codax conservano il supporto melodico[25]. Un’altra coincidenza – non meno rilevante – tra i due testimoni, è che la successione dei testi sia dell’uno che dell’altro è identica a quella consegnata nei due apografi colocciani. E questa circostanza, a mio avviso, è particolarmente significativa: le sette cantigas di Martin Codax non solo compaiono in B e V nello stesso ordine documentato dalla Pergamena Vindel, ma sono anche le uniche tràdite a nome del giullare di Vigo in tutti i testimoni: un indizio a favore dell’ipotesi che il compilatore del canzoniere del 1350 – supposto e probabile modello, anche se per possibili interpositi,  dei canzonieri fatti copiare e chiosati da Angelo Colocci – disponeva della Pergamena Vindel o di un suo apografo. Ma per il reperto dionigino, come si giustifica la stessa coincidenza?
Torniamo – se posso ancora abusare della vostra pazienza – al catalogo della biblioteca del re Duarte: è possibile che il lacerto dell’Archivio di Stato sia un residuo – l’unico affiorato, almeno per ora – di uno dei «Livro[s] das Trovas» qui registrati, e altrimenti latitanti? E di quale?
Le opzioni sono due, come in ogni dilemma che si rispetti, dal momento che dalla competizione sembra lecito escludere, per ragioni evidenti, «O Livro das Trovas del Rey Dom Afonso», sul cui carattere di canzoniere monografico – un dono del re castigliano al nipote? – sarebbe superfluo avanzare dubbi; così come mi sembra indiscutibile che il «Dom Afonso» in questione fosse Alfonso X di Castiglia, e non certo – come supponeva Carolina Michaëlis – Alfonso III di Portogallo, del quale nessuna fonte attesta un qualche interesse per la poesia. Restano gli altri due. Ma credo poco verosimile che, per le caratteristiche desumibili da quel che ne resta, il frammento sia riconducibile a un canzoniere monografico regio: intanto, per le dimensioni del foglio, troppo grande per un libro destinato a contenere poco meno di centoquaranta cantigas – tante quante ne sono incluse negli apografi colocciani, e probabilmente nei loro comuni antecedenti (o nel loro comune antecedente –, nel quale il conte di Barcelos deve essere stato in grado di riversare se non tutta almeno buona parte della produzione paterna; e poi per la qualità scadente del supporto e della mise en page.
Il paleografo portoghese António Guerra[26] ha calcolato che la carta sopravvissuta avrebbe misurato in origine 521 mm. di altezza e 302 di larghezza. Ma sembrano, queste, misure poco credibili, per le quali  non si deve essere tenuto conto delle caratteristiche del codice rivelate dal foglio residuo: un libro tutto considerato troppo inelegante per essere uscito da uno scriptorium di corte, un libro fatto cioè in economia, con pergamena di non eccelsa qualità, scritto in modo abbastanza disordinato su tre colonne di dimensioni non omogenee e con margini esterni molto meno ampi di quelli ipotizzati da Guerra: il quale tuttavia non manca di annotare che la confezione del libro deve essere stata affidata a mani professionalmente poco abili.
Se si tiene conto delle condizioni attuali del reperto, misurate all’atto del ritrovamento, cioè 405 per 271 mm, con uno specchio di 255 mm di larghezza e scrittura gotica su tre colonne – condizione questa non usuale per i testi lirici, soprattutto se corredati di notazione –, sembra più plausibile  che le dimensioni originali non superassero di molto quelle odierne. Poiché è da presumere che lo scriptorium  regio dovesse disporre, per una raccolta dionigina verosimilmente compilata in vita dell’autore, di tutto – o di quasi tutto – il peculio poetico del re (non molto più, comunque, delle 137 cantigas tràdite dal conte di Barcelos), queste dimensioni sembrano eccessive per una raccolta monografica, perché il risultato – considerando che il foglio superstite, tra recto e verso, ne accoglie sette – sarebbe stato un libro di 19 carte complete e del recto di una ventesima: dunque un volume di formato eccessivo per un numero di carte esiguo. Inoltre, si dovrebbe supporre che una raccolta monografica della produzione regia avesse un aspetto grafico meno trasandato di quello risultante dal frammento, con distribuzione del testo su due colonne, e non su tre, e uno specchio di pagina più arioso: sul tipo, per fare un esempio, del Canzoniere dell’Ajuda.
Resta dunque, dei due indiziati, «O Livro das Trovas del Rey». E questo potrebbe davvero essere il «Livro das cantigas» fatto trascrivere dal conte, conservato a corte almeno fino all’epoca di Alfonso V, quando l’apertura della biblioteca regia alla libera consultazione da parte degli intellettuali ha comportato l’inserimento (si spera abusivo) di testi spuri negli spazi liberi, la riproduzione, totale o parziale, e la migrazione di una o più copie in Italia.
Alla sovrapponibilità delle due indicazioni e alla loro possibile coincidenza con il canzoniere di cui è rimasta labile traccia nell’Archivio di Stato portoghese si oppongono tuttavia alcune caratteristiche del lacerto lisbonense: in primo luogo, il rilievo dato alla trascrizione musicale, che denuncia, per il ductus e la spaziatura dei numerosi melismi, una mano avvezza a copiare melodie liturgiche. Pur nell’aspetto generalmente trasandato del reperto, e nonostante le difficoltà di lettura dovute ai danni recati alla trascrizione quadrata da un restauro delittuoso, la cura dedicata dal copista alla melodia indirizza verso uno scriptorium monastico, al quale invece non saprei collegare il Livro das cantigas di Pedro, che doveva presentare un aspetto ancora più spartano.
L’impresa del conte di Barcelos non poteva in effetti non urtare contro difficoltà di un certo rilievo: intanto quelle economiche. Le non abbondanti risorse finanziarie di cui poteva disporre il figlio naturale di un re ormai morto da oltre un ventennio, esiliato o autoesiliatosi dalla corte e relegato in un suo feudo nella Beira, soprattutto dopo i dissapori e anzi i contrasti anche violenti che avevano segnato gli ultimi anni di regno di Dionigi e la successione al trono, e inoltre, l’isolamento intellettuale in cui visse gli ultimi anni della sua vita, solo parzialmente mitigato dalla compagnia di due trovatori che ne condividevano (credo volontariamente) la sorte, e ancora le relazioni poco amichevoli con il fratellastro e legittimo erede, Alfonso IV, sono tutti elementi che lasciano supporre una non larga disponibilità di fondi da dedicare all’impresa. I costi della pergamena e il salario dei copisti esigevano che si risparmiasse, ripiegando su materiali meno pregiati e su prestazioni meno care: basti pensare che alla fine del XIII secolo un codice di pregio poteva valere 50 morabitini, cioè più o meno quanto una mandria di 10 vacche lattifere. Ma i dati ricavabili dal frammento indicano che per i 1679 testi conservati – e trascuriamo qui le perdite dovute ai guasti subiti dai due canzonieri colocciani e che porterebbero il totale almeno a oltre 1700 – sarebbero occorse 240 carte, che avrebbero dato un libro di dimensioni superiori a quelle del provenzale R, dove sono registrati un migliaio di testi, ma con quelli narrativi disposti su 4 o anche 6 colonne. 
Dunque, cinque canzonieri, dei quali quattro latitanti – quello di Donna Mencia, il Livro das cantigas del 1350 e i due congetturalmente monografici del catalogo del re Duarte – e un quinto riaffiorato fortunosamente, pur se in minima parte. Tutti definitivamente perduti? Non possiamo dirlo, visto che di quando in quando la riemersione di qualche frammento sembra contraddire un pessimismo troppo radicale. E non si può neppure escludere che un canzoniere intero, ritenuto latitante, ricompaia prima o poi sulla scena.
È il caso della raccolta che l’erudito brasiliano Francisco Adolfo de Varnhagen vide nel 1857, a Madrid, in casa di un «Grande de Hespaña» e che utilizzò per emendare non poche lezioni del Canzoniere Vaticano – ma in realtà per sostituire lezioni corrette con errori o travisamenti: nessuno, tranne Varnhagen, riuscì a vedere questo canzoniere, che tuttavia Carolina Michaëlis – basandosi soltanto sulle scelte operate dallo stesso Varnhagen in alcune sue pubblicazioni – non esitò a definire copia tardosettecentesca o primottocentesca del Vaticano[27]. Ma di recente questo latitante – realizzando un auspicio della stessa studiosa luso-tedesca («Ainda assim [cioè pur trattandosi di una copia molto tarda e sicuramente deteriore] seria bom que sahisse da sua prisão») è riaffiorato, e nel 1983 è stato acquistato dalla Bancroft Library dell’Università di Berkeley[28], assieme ad altri manoscritti messi in vendita da una famiglia dell’aristocrazia spagnola: comunque, alcuni controlli che ho potuto eseguire grazie alla generosità del collega Arthur Askins – che mi ha fornito il microfilm del riemerso — hanno confermato l’ipotesi della Carolina, e cioè che il canzoniere del grande di Spagna è un descritto di V, decisamente deteriore, e che tuttavia può essere utile per ricostruire luoghi in cui il testo del codice vaticano è stato danneggiato, soprattutto – ma non solo – a causa di un inchiostro particolarmente corrosivo.
Dunque, abbiamo finora tre latitanti e due pentiti, il più interessante dei quali ha però lasciato solo un «pizzino». Ma i latitanti – sfogliando le oltre 50 pagine dedicate da Donna Carolina a questa specie di obituario – sembrano essere più numerosi, anche se alcuni assolutamente improbabili, come quasi sempre avverte la stessa studiosa. Che tuttavia viene meno al rigore che le è abituale quando lascia libero corso alla fantasia attribuendo ad Alfonso III «O Livro das Trovas del Rey Dom Afonso», che abbiamo classificato come canzoniere monografico di Alfonso X, e nel quale secondo l’illustre studiosa il padre di Dionigi avrebbe cominciato a raccogliere le poesie dei suoi cortigiani[29]: impresa impensabile in Portogallo alla metà del Duecento. Latitanti sarebbero invece il codice messo all’asta a Madrid nell’Ottocento – che però la stessa Michaëlis riteneva possibile identificare con uno dei libri della biblioteca del re Duarte o con il canzoniere di Donna Mencia de Cisneros –; e latitanti a pieno titolo sono il codice o i codici – uno di questi il famoso «libro di portoghesi» oggetto di una famosa nota colocciana[30] – da cui l’umanista iesino ha fatto trarre i suoi due canzonieri.
In conclusione, almeno quattro i latitanti sicuri, ai quali io ne aggiungerei un quinto – ma è materia controversa – e un paio di improbabili; due su cinque hanno lasciato discendenza, un terzo è riemerso con un misero lacerto.
Ma anche altri testimoni della lirica medievale galega si sono eclissati, alcuni per periodi più o meno lunghi, altri forse per sempre. I due apografi di una tenzone tra Afonso Sanchez e Vasco Martinz de Resende sono trascrizioni cinquecentesche di una pergamena trecentesca, di cui si sa che comprendeva la melodia, omessa nelle copie, ma che non ha dato più notizie di sé. Della Pergamena Vindel, riemersa fortunosamente negli anni venti del Novecento, si è quasi subito perduta di nuovo traccia per oltre mezzo secolo, fino alla sua riemersione presso la Pierpont Morgan Library. E per ben tre secoli – tra Cinquecento e Ottocento – si è eclissato perfino il Canzoniere dell’Ajuda: un manoscritto pergamenaceo di ottima fattura, la cui confezione a un certo punto è stata purtroppo interrotta: una raccolta dunque incompleta, che tramanda solo 310 testi, quasi tutti cantigas de amor, che non reca rubriche attributive, che presenta solo un numero limitato di miniature rifinite, e che lascia vuoti gli spazi previsti per la notazione musicale; ma la cui riemersione ci assicura, almeno in parte, un prezioso termine di confronto con i canzonieri colocciani rispetto ai quali offre quasi sempre lezioni migliori e dai quali riceve in cambio un buon numero di attribuzioni d’autore.
Una latitanza così diffusa, quella dei testimoni della lirica galega, che, se non ci fosse venuta in soccorso la curiosità erudita del tanto bistrattato Angelo Colocci, avrebbe sommerso del tutto, o quasi, un’intera stagione letteraria.

 

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NOTE

[1] Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. 278 (ol, fr. App. cod. XI).
[2] Barcelona, Biblioteca de Catalunya, ms. 146.
[3] Barcelona, Biblioteca de Catalunya, mss. 7 e 8.
[4] Madrid, Real Academia de la Historia, 9-24-6/4579 (int. 3).
[5] M. Pujol i Canelles, Poesia occitanocatalana de Castelló d’Empuries. Recull de poemes de final del segle XIII i primer terç del XIV, Figueres, Institut  d’Estudis Empordanesos - Girona, Patronat Eiximenis, 2001.
[6] «Intavulare». Tavole di Canzonieri Romanzi (serie coordinata da Anna Ferrari). I. Canzonieri Provenzali. 3. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana - V (Str.App. 11 = 278), a cura di Ilaria Zamuner, Modena, Mucchi Editore, 2003.
[7]  Nella stessa collana «Intavulare».
[8] A. Alberni, «El cançoner occità V: un estat de la qüestió», CN LXV, 2005, pp. 155-180.
[9] D’A. S. Avalle, I manoscritti della letteratura in lingua d’oc, nuova edizione a cura di L. Leonardi, Torino, Einaudi, 1993, p. 94 (e prima, Id., La letteratura medievale in lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta. Problemi di critica testuale, Torino, Einaudi, 1961, p. 116).
[10] F. Zufferey, Recherches linguistiques sur les chansonniers provençaux, Genève, Librairie Droz, 1987, p. 233.
[11] Zufferey, op. cit., pp. 231 e 233.
[12] BdT 183,12, Un vers farai, pos me someill.
[13]  Op. cit., p. 5 (e passim)
[14] G. Tavani, Per una història de la cultura catalana medieval, Barcelona, Curial, 1976, pp. 53-80, 91-103.
[15] Ved. nota 5.
[16] Cf. Zufferey, op. cit., pp. 345-348 (cf. anche p. 274, nota 154).
[17] V. Beltrán, La corte de Babel. Lenguas, poética y política en la España del siglo XIII, Madrid, Gredos, 2005, p. 38.
[18] B 520b, V 123; G. Tavani, Repertorio metrico della lirica galego-portoghese, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967 (= RM), n° 25,99.
[19] B 524b, V 128; RM 25,86.
[20] C. Michaëlis de Vasconcellos, Cancioneiro da Ajuda. Edição critica e commentada por –, 2 voll., Halle a.S., Max Niemeyer, 1904 (rist. anast. Torino, Bottega d’Erasmo, 1966; altra rist. anastatica, con prefazione di I. Castro, Lisboa, Imprensa Nacional-Casa da Moeda, 1990 (in appendice del I vol. anche il Glossario, in prima ed. nella «Revista Lusitana», XXIII, 1920).
[21] Cf. E. Monaci, Il proemio del Marchese di Santillana, 2a ed., Roma 1912.
[22] G. Tavani, Trovadores e jograis. Introdução à poesia lírica medieval galego-portuguesa, Lisboa, Caminho, 2002, pp. 408 e 392-393, rispettivamente.
[23] Il succinto catalogo (ms. 3390 della Biblioteca Nacional di Lisbona, f. 163) è pubblicato nell’ed. critica del Leal Conselheiro di D. Duarte, curata da J. M. Piel, Lisboa, Livraria Bertrand, 1942, pp. 414-416.
[24] Cf. il I vol. delle Actas do IV Congresso da Associação Hispânica de Literatura Medieval (Lisboa, 1-5 Outubro 1991), Lisboa, Edições Cosmos, 1993: H. L. Sharrer, «Fragmentos de sete cantigas d’amor de D. Dinis, musicadas - uma descoberta» (pp. 13-29); A. J. R. Guerra, «Contributos para a análise material e paleográfica do fragmento Sharrer» (pp. 31-33); M. P. Ferreira, «Relatório preliminar sobre o conteúdo musical do fragmento Sharrer» (pp. 35-42).
[25] Cf. M. P. Ferreira, O som de Martin Codax. Sobre a dimensão musical da lírica galego-portuguesa, Lisboa, Unisys e Imprensa Nacional-Casa da Moeda, 1986.
[26] Cf. nota 24.
[27] C. Michaëlis de Vasconcellos, op. cit., II, 269-270.
[28] A. L-F. Askins, «The Cancioneiro da Bancroft Library (previously, the Cancioneiro de um Grande d’Hespanha): a copy, ca. 1600, of the Cancioneiro da Vaticana)», nelle Actas cit. alla nota 24, pp. 43-47.
[29] C. Michaëlis de Vasconcellos, op. cit., II, 228, 233, 285 e passim.

[30] Id., ibid., pp. 274 ss.; E. Gonçalves, «Quel da Ribera», CN, XLIV, 1984, pp. 219-224.

 

 

 

 
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ultimo aggiornamento di questa pagina: 24 Novembre, 2007