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Società Italiana di Filologia Romanza

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Ma certo che serve la filologia romanza!
Risposta a Corrado Bologna

di Andrea Fassò

 

 

Caro Corrado,

solo pochi giorni fa ho letto la tua lettera alla SIFR (il “mio” sito SIFR non era aggiornato; la spiegazione sarebbe lunga).

Concordo pienamente col tuo giudizio e col tuo stato d’animo. Anch’io sto assistendo alla progressiva perdita di peso della nostra disciplina, prima all’estero e ora anche in Italia. Sicuramente i colleghi di altri settori (in primis l’italianistica) cercano di occupare il nostro spazio, approfittando anche del generale peggioramento della preparazione degli studenti e quindi della possibilità di offrire loro un percorso più facile. In ciò sono aiutati: a) dall’interesse sempre minore per le epoche passate (Medio Evo soprattutto) e dal prevalere sproporzionato e quasi esclusivo per tutto ciò che è contemporaneo o per lo meno recente; b) dall’ignoranza diffusa su cosa sia e a cosa serva la filologia romanza (mentre la lingua e la letteratura italiana bene o male si crede di conoscerle); c) dalla loro stessa ignoranza in materia: molti colleghi italianisti, anche di valore, faticano a distinguere il francese dal provenzale; sanno a malapena che prima della lirica italiana ci sono dei trovatori (che non sanno leggere); ignorano tutto di Marcabru, di Chrétien de Troyes, dei grandi romanzi in prosa, di Maria di Francia, dei fabliaux, di Juan Ruiz, di Juan Manuel, di Ramon Llull… e, naturalmente, di qualunque poema epico all’infuori del Cid e della Chanson de Roland (che non sanno leggere).

Tutto questo è vero. Le forze avverse sono molte e pericolose. E tuttavia mi domando: noi non abbiamo niente da rimproverarci? Che cosa abbiamo fatto per rendere la nostra materia, non dico attraente, ma credibile?

La parabola della filologia romanza mi ricorda quella del latino. Il latino ha sempre avuto molti detrattori, dagli esponenti dello scientismo e del tecnicismo fino alla gente comune che ripeteva «a cosa serve?». A questa semplice e non insensata domanda i latinisti hanno variamente risposto: serve perché è una bella lingua (il francese, lo spagnolo, il tedesco evidentemente sono orrendi); serve perché è una lingua logica e insegna a ragionare, dato che bisogna osservare le concordanze, la consecutio temporum ecc. (mentre, come ognun sa, le lingue moderne sono prive di ogni logica, sgangherate, usabili come viene viene); perché la logica del latino è ferrea e la forma è essenziale (molto più di quella del greco, lingua elastica e notoriamente inadatta alla filosofia); serve per capire da dove derivano le parole italiane (tedeschi e polacchi ne potranno fare a meno?). E via di questo passo, continuando a fare ingozzare agli alunni regole, sotto-regole, costrutti che nemmeno gli autori classici usavano, e riservando alla lettura dei testi una metà scarsa del tempo. A ben pochi insegnanti è venuto in mente di rispondere che il latino è importante perché è il veicolo di una grande cultura, che è la nostra, e che di questa cultura, oltre a Cicerone e Virgilio, fanno parte la Bibbia (la quale, mi insegnavano a scuola, «è scritta male»: si sa, quell’ignorante di san Girolamo…), sant’Agostino (che un insigne latinista definì in mia presenza «un epigono tardo-antico»), la liturgia cattolica, il Corpus Juris, san Bernardo, san Tommaso, mezzo Dante, quasi tutto Petrarca, Erasmo, Bacone, Leibniz, la medicina, la scienza, il diritto… Il latino è la nostra storia, e capire la nostra storia vuol dire capire noi stessi. Nessuno l’ha detto; e gli appelli in difesa del latino – giusti in sé stessi; anch’io ne ho firmato qualcuno – sono caduti nel vuoto. Ai suoi detrattori è parso evidente che di una pianta ornamentale o di un surrogato della geometria e dell’enigmistica si potesse benissimo fare a meno. Il latino è stato ucciso, certo; ma prima di essere ucciso ha fatto di tutto per suicidarsi.

Lo stesso stiamo facendo noi da molti anni in qua. Per non ripetermi rinvio a quanto dissi al seminario di Alghero nel 2003 (www.filologiasarda.eu/pubblicazioni/alghero2003/05.pdf)  e aggiungo: non dimentichiamo che i nostri studenti studiano filologia romanza (cominciando da zero, mentre di letteratura italiana ne sanno già un po’) per un solo anno; usciranno dall’università portandosi dietro quello che in quest’unico anno hanno ascoltato e letto.

Se in quest’unico anno noi non riusciamo a fargli capire che la civiltà europea ha la sua radice in quel millennio (non “mezzo millennio”: il Medioevo comprende anche il periodo 500-1100); che la letteratura italiana nasce in Francia nel XII secolo; che in quei testi lirici, epici, romanzeschi, novellistici, agiografici si esprime un mondo del quale noi siamo gli eredi diretti; che questo mondo è fatto di chiese e monasteri, di chierici e cantori girovaghi, di feudalità, di cavalleria, poi anche di borghesia comunale; che in quel mondo cercano faticosamente di incontrarsi la civiltà mediterranea (classica e cristiana) e le civiltà barbariche, dando luogo a un mondo del tutto nuovo, che è appunto l’Europa;

– se, invece di tutto questo, gli presentiamo la filologia come linguistica ed ecdotica (così si legge nella premessa di  Cesare Segre al “nuovo corso” di «Medioevo Romanzo», 2007; così ribadì lo stesso Segre in un seminario interdottorale a Bologna nel 2008); se ci attardiamo su minuzie grammaticali e metriche; se trattiamo i testi come entità autosufficienti e come pretesti per considerazioni stilistiche e intertestuali; se ci limitiamo ad analisi formali viste come fine e non come mezzo; se come fine e non come mezzo presentiamo l’edizione critica;

se operiamo in questo modo, che cosa risponderà uno studente alla domanda «a cosa serve?». E se, come nella mia facoltà, la filologia romanza sarà stata messa in alternativa alla filologia italiana (non sono stato io, sono stati gli italianisti), che ragione avrà di scegliere la filologia romanza? Al suo posto io penserei: se ha da essere linguistica ed ecdotica, se ha da essere analisi formale, metrica, retorica, stilistica, scelgo la filologia italiana, che mi servirà a studiare meglio la letteratura italiana, perno del mio curriculum.

«A che è servito –  ti domandi accorato – pubblicare e studiare Curtius, Auerbach, Spitzer, Contini?» E io aggiungerei: A che è servito Duby, per noi romanisti il più grande maestro della seconda metà del Novecento? A che è servito Le Goff, e poi, fra i nostri “coetanei”, Cardini, Barbero, Schmitt, Flori, Ruiz Domènec? A che è servito lo sviluppo dell’antropologia (che gli storici hanno pur capito e utilizzato)?

Il guaio è che da 30-40 anni in qua nessuno si pone più un problema. Le nozioni acquisite sembrano acquisite per sempre e nessuno si domanda più se per caso qualche questione sia rimasta aperta. Parlo delle questioni vere, non di archetipi, di intertestualità, di strutture narrative, di strategie retoriche, di artifici metrici o linguistici.

Nel 1955 Jean Rychner con La chanson de geste mise a rumore la nostra corporazione; due anni dopo le questioni da lui sollevate furono discusse a Liegi dai migliori fra i suoi sostenitori e i suoi avversari (anche se poi Delbouille, organizzatore del convegno, si accaparrò elegantemente 114 pagine degli atti, illudendosi di dire una parola definitiva): La technique littéraire des chansons de geste (1959) è ancora un punto di riferimento imprescindibile. Fu, per quanto ne so, l’ultimo importante episodio in cui i romanisti si confrontarono su una questione di fondo. Poi, pian piano, cominciò la politica dei respingimenti. Darò qualche esempio, parlando il meno possibile di cose bolognesi (il pudore deve prevalere sulla vanità, ma pazienza).

1964: Jeanne Wathelet-Willem pubblica nei Mélanges Delbouille (proprio la sede adatta!) un articolo sullo stile formulare epico e conclude prospettando l’ipotesi che dietro al decasillabo epico si nasconda un originario ottosillabo. L’articolo non passa inosservato (si scorra la Tabula gratulatoria dei Mélanges); ma nessuno si prende la briga di discuterlo, magari di confutarlo; eppure l’ipotesi ha implicazioni evidenti al di là del mero fatto formale; ed è probabilmente per questo che su di essa cala il silenzio. Sette anni dopo, la grande edizione Segre della Chanson de Roland ignora completamente la questione. La stessa Wathelet-Willem (in posizione subordinata nell’università belga) non la riprenderà più.

1970: con Critica dei testi classica e romanza Alberto Varvaro (non nascondendo qualche perplessità sul procedere dei classicisti) mette in luce alcune peculiarità dei testi romanzi, in particolare la loro tradizione “attiva” in opposizione a quella “quiescente” dei classici greco-latini e della Bibbia: tradizione attiva che ha molte implicazioni, fra le quali (anche se Varvaro non lo dice) un ridimensionamento del criterio della lectio difficilior (una difficilior può essere introdotta da un rimaneggiatore “attivo”). Ma, fra le varie osservazioni acute (compreso un cauto rilancio delle tesi di Bédier), mi colpisce il § 5, Oggettività dello stemma e qualità della tradizione: la storia della tradizione delle poesie di Charles d’Orléans è nota grazie al rango sociale dell’autore, ma “che sarebbe accaduto se avessimo perduto O [il ms commissionato dal duca dopo il ritorno in Francia dalla prigionia]?” E, aggiungo io, che cosa sarà accaduto nel caso di autori dei quali non sappiamo abbastanza o non sappiamo nulla del tutto (Chrétien de Troyes, per fare l’esempio più illustre)? Siamo sicuri di dover ricostruire un archetipo? O durante e dopo la vita dell’autore il testo può avere conosciuto vicissitudini che noi nemmeno immaginiamo? Il saggio di Varvaro è spesso citato e lodato; ma nella prassi editoriale corrente se ne tiene conto assai poco. Vecchio o giovane, un filologo non si sente filologo senza archetipo e senza stemma.

1981: Joël Grisward pubblica l’Archéologie de l’épopée médiévale. La sua tesi evidentemente va discussa seriamente: o se ne dimostra l’infondatezza, oppure le nostre nozioni sull’epica medievale (e non solo su di essa) vanno rivedute da cima a fondo. Una breve scheda in Italia; qualche recensione all’estero; una recensione all’edizione italiana nel 1989; poi più niente. Dal 1982 al 2009 la Société Rencesvals ha tenuto dieci congressi internazionali (alquanto ripetitivi, va da sé) come se nulla fosse accaduto.

1983: Paul Zumthor pubblica l’Introduction à la poésie orale, cui farà seguire nel 1987 La lettre et la voix. Strani fata hanno questi libelli: prontamente tradotti in italiano (Bologna, il Mulino, 1984 e 1990), vengono poi accantonati senza un minimo di discussione. L’oralità è a tutt’oggi un tema tabù; e anche post mortem come si può perdonare il tradimento dello strutturalista e quasi-semiologo Zumthor? (Semiologia e poetica medievale è il titolo dell’edizione italiana – con intervista di Cesare Segre all’autore – di un suo importante libro, che per la verità nell’originale è solo un Essai de poétique médiévale). Guai se diventasse contagioso il suo esempio: essere capace di cambiare radicalmente le proprie idee anche dopo il pensionamento.

1989: in un lungo saggio, L’amour courtois en tant que discours courtois sur l’amour, Rüdiger Schnell opera una rigorosa e informatissima messa a punto, demolendo le idées reçues sull’amore cortese che si ripetono di manuale in manuale: non esiste una teoria né tantomeno un trattato sulla fin’amor: quello di Andrea Cappellano fu recepito in seguito come tale ma era stato scritto con tutt’altro intento; l’amore cortese è sì caratterizzato da alcuni tratti costanti (esclusività, costanza, sincerità, reciprocità, spontaneità, rispetto dell’altro, misura, disposizione alla sofferenza…), ma la sua concezione varia da poeta a poeta: non è necessariamente adultera; non sempre è incompatibile col matrimonio; non esclude affatto il pieno appagamento sessuale… Il saggio, opera di uno dei migliori specialisti della materia, appare in francese su «Romania»; la sua eco è nulla. Occorre un notevole sforzo per reperirne qualche citazione. Discussione, zero. Perché? La revisione delle nostre nozioni sulla fin’amor è tanto scomoda? È pericolosa? Certo, occuparsi di cose reali, di fatti storici, di problemi di storia della mentalità o della cultura può sempre avere qualche ricaduta che rimetta in discussione le nostre certezze; ma d’altra parte, suvvia, con la fin’amor si corrono tanti rischi? Al massimo dovremo riscrivere qualche manuale. Ma forse la ragione è un’altra: già allora da diversi anni si era smesso di discutere di contenuti; solo di forme – ormai era stabilito – valeva la pena di occuparsi. A che pro porsi problemi sui realia, quando ormai tutto quel che c’è da sapere è stato accertato?

1992: Glauco Sanga pubblica La rima trivocalica, sostenendo in particolare: a) che la “rima siciliana” non è siciliana, ma non è altro che la rima trivocalica a /e-i/ o-u, che ha le sue origini nella poesia mediolatina ed è attestata nelle lingue romanze (specialmente nell’italiano) sia prima sia dopo la scuola siciliana (e include la “rima guittoniana”, la “rima umbra” e via di seguito); b) che Siciliani è un termine convenzionale, come attestato da Dante; c) che non occorre pensare a una primitiva redazione in siciliano delle liriche del Notaro e dei suoi sodali, mentre è più probabile che la lingua dei “Siciliani” sia stata fin dall’origine quella dei codici che li conservano. Non è un fulmine a ciel sereno, perché il saggio di Sanga, o un suo abbozzo, circolava dattiloscritto fin dal 1970 ed era stato letto (più d’una volta con favore) da illustri studiosi. Eppure non appare nessuna recensione (ci sarebbe la mia, ma ho promesso di non parlarne). Nel 1997 si tiene (non posso dire dove e per iniziativa di chi) una giornata di studio i cui atti vengono pubblicati in QFR: in essa intervengono Glauco Sanga, Furio Brugnolo, Roberto Antonelli, Giuseppina Brunetti, ma ognuno rimane sulle proprie posizioni. Poi più nulla fino al 2008, quando finalmente esce, in tre volumi dei «Meridiani» Mondadori, l’edizione completa dei Siciliani. In essa il nome di Glauco Sanga non compare mai, né in qualche nota né in bibliografia, né in poche righe magari per liquidarlo con uno sbrigativo “non convince”. Una damnatio memoriae che si commenta da sola. Non avevo mai visto niente di simile. Mi dispiace criticare in questo modo molti cari amici; sed magis amica veritas (per i cultori della latinità contemporanea, quanno ce vo’ ce vo’).

1996-2000: presso il Mulino esce Origini delle lingue d’Europa di Mario Alinei. Le nozioni tradizionali circa l’arrivo degli Indoeuropei in Europa sono messe radicalmente in discussione: al modello Gimbutas (invasione a partire dal IV millennio da parte dei pastori-cavalieri dei kurgan) e al modello Renfrew (migrazione pacifica a partire dal Neolitico, VIII-VII millennio, dei diffusori dell’agricoltura) si sostituisce il Paradigma della Continuità Paleolitica (PCP): i popoli europei erano già stanziati nelle attuali sedi fin dal Paleolitico superiore, come si evincerebbe anche dai risultati dell’archeologia e della genetica. Fra le molte conseguenze, una ci colpisce direttamente: lingue e dialetti romanzi non derivano dal Latino, ma risalgono al Paleolitico; il Latino è solo uno di questi dialetti e si imporrà sugli altri come superstrato con l’espandersi della potenza romana (allo stesso modo del franciano, del castigliano, del fiorentino nei confronti delle parlate francesi, spagnole, italiane).

La filologia è linguistica ed ecdotica? Bene, vivaddio si torna a parlare di linguistica! Una visione così rivoluzionaria meriterebbe convegni, tavole rotonde, numeri monografici di riviste; e in effetti qualcosa si muove, a giudicare da ciò che si legge in www.continuitas.org; Francisco Villar, che non è l’ultimo degli indoeuropeisti, si è man mano avvicinato alla teoria di Alinei; ma da parte di noi romanisti si hanno solo un paio di recensioni a denti stretti (sfavorevoli naturalmente, ma con scarsità di argomenti) e sei pagine (42-47, pure sfavorevoli, ma con un accenno di discussione) del libro di Michele Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani (Roma-Bari, Laterza, 2009). Per la verità un’iniziativa c’era stata (e qui mi tocca parlare di me per un momento): coordinato da me, era nato un serrato dibattito, via e-mail, fra Mario Alinei e Alberto Zamboni (convinto e competentissimo sostenitore della tesi tradizionale) intorno al riflesso del PCP sulla linguistica romanza. Noi organizzatori del VII congresso della SIFR (Bologna 5-8 ottobre 2009) avevamo deciso di diffonderlo in settembre al punto a cui era arrivato (circa metà cammino) via Internet a tutti i soci della SIFR, i quali sarebbero così giunti ben informati al convegno, destinato ad aprirsi proprio con la comunicazione di Mario Alinei e Francesco Benozzo. Non appena il programma fu pubblicato fummo fermati dall’intervento a piedi uniti di un collega che, scandalizzato da questa apertura eterodossa, faceva intendere che il convegno avrebbe conosciuto (sotto la sua stessa presidenza) una giornata un po’ troppo animata. Finì che pro bono pacis spostammo al quarto posto Alinei e Benozzo e rinunciammo al proposito di diffondere on line il dibattito (Alinei e Zamboni si dimostrarono molto comprensivi, conoscendo l’ambiente, anche se Zamboni insieme col suo rammarico mi espresse la sua giusta preferenza per i congressi «incasinati»). Il dibattito si interruppe dolorosamente il 25 gennaio 2010 per la scomparsa di Zamboni; ma proprio in omaggio a lui (che, non convinto della nuova teoria, non si è però girato dall’altra parte e ha accettato con passione il confronto) sarà presto pubblicato. Un’altra occasione persa per i romanisti.

Ho portato solo qualche esempio; ce ne sarebbero molti altri, che non ho bisogno di menzionare perché noti a tutti. Ma a che cosa è dovuto questo silenzio ostinato, questo ostinato guidare guardando nello specchietto retrovisore? Credo che la risposta si sintetizzi in una parola: paura. In alcuni casi (Grisward, Alinei), paura di dover ricominciare tutto da capo, di affrontare materie di cui non sappiamo quasi nulla (indoeuropeistica, archeologia…), di farci una competenza accettabile in campi sconfinati di cui nessuno ci ha mai parlato (un laureato in lettere moderne, come sono la maggior parte dei romanisti italiani, ha mai studiato seriamente la storia antica, la preistoria, la glottologia indoeuropea, le culture indo-iraniche…? Ne ha almeno letto qualcosa? In alcuni casi sì, per lo più no; anzi, per chi si è iscritto a Lettere moderne prima del 2001, l’unico contatto con la linguistica è stata appunto una parte del corso di filologia romanza; nei casi migliori, anche un corso di storia della lingua italiana; poi più nulla: niente glottologia, niente dialettologia, niente archeologia…). Oltre a ciò, il timore di contrariare chi confonde la storia di lunga durata con l’assenza di storia. Ma a parte questo, la paura di cui parlo è paura e basta.

In Manhattan Woody Allen, sdraiato sul divano, riflette «sull’idea per un racconto sulla gente ammalata, che si crea continuamente problemi inutili e nevrotici perché questo gli impedisce di occuparsi di più insolubili e terrificanti problemi universali»  (sono grato a Roberto Saviano per avermelo ricordato in «Repubblica» 1.3.11, p. 55). Probabilmente Woody Allen non conosce la filologia romanza, altrimenti avrebbe subito trovato materia per il suo racconto. Lo so, tu mi dirai: ma noi studiamo cose medievali, di che cosa dovremmo avere paura? E invece no: quanto più ci si occupa di cose (di cose, non di sole parole), tanto più c’è il rischio che prima o poi qualche problema si ponga anche a noi contemporanei.

Scandagliare il Medioevo (compreso il primo mezzo millennio, e comprese molte cose che vengono prima di Dante e dello Stilnovo, e che hanno valore di per sé, non solo in quanto precorrono Dante) non ci riserverà qualche sorpresa? Non ci rivelerà qualcosa di scomodo sulle nostre radici, sulle nostre origini, sulla nostra storia, su quello che siamo? Non ci metterà di fronte a problemi tuttora insoluti e che per essere affrontati richiedono un pizzico di coraggio? E allora, invece di riflettere sui contenuti, non sarà meglio fare la punta agli spilli, fare la storia (quando la si fa) delle forme, analizzare con sottigliezza e con linguaggio artefatto gli stilemi più insignificanti, pubblicare inediti e inutili volgarizzamenti toscani (inutili per la lingua, della quale sappiamo ormai tutto; inutili per il contenuto, uguale a quello dell’originale), ripubblicare – ovviamente – testi già pubblicati e ampiamente noti e la cui sostanza non cambia con la nuova edizione, ma dei quali è sempre possibile rifare lo stemma e privilegiare qualche nuova variante senza mai domandarsi di quale mondo, di quale mentalità, di quale umanità quel testo (quel «testimone»!) ci dà notizia? Perché il codice è “testimone” del testo; ma il testo sarà pur testimone di qualcosa!

«Forse – tu dici – un intervento diretto e mirato presso il CUN, appena rinnovato, potrebbe ancora offrire una speranza di tornare ad esistere». Hai ragione; e nessuno lo può fare meglio di te. Eviterei tuttavia – se posso darti un suggerimento – di rivelare ai colleghi del CUN che Spitzer, Curtius, Auerbach sono morti da più di mezzo secolo. Perché, se ti chiedessero quali autori, quali opere della romanistica contemporanea possono dire qualcosa agli antropologi, ai folkloristi, agli storici della società, delle istituzioni, delle mentalità, delle idee, o anche –  perché no  – a quei teologi e filosofi che Lausberg ci raccomandava di studiare; se ti chiedessero quali nostri libri vale la pena (per loro) di leggere, tu che cosa potresti rispondere? Qualcuno ce n’è, lo so; ma sono tutte opere “eretiche”, “controcorrente”. Perché il bello della faccenda è che queste etichette, un tempo esibite fino all’eccesso come vanto, oggi sono usate dai romanisti con intento spregiativo. Come dovrà essere dunque un buon filologo romanzo? “Ortodosso”? “conformista”? “benpensante”?  E poi, dài, per essere “controcorrente” bisogna almeno che ci sia una corrente. Guardati intorno: vedi qualcosa di diverso da paludi e acquitrini?

Quando ero studente conoscevo Mimesis e qualche saggio di Spitzer; la lettura di Curtius e delle altre opere di Auerbach mi fu consigliata dal mio professore di storia medievale Girolamo Arnaldi. La filologia romanza di allora era ancora una disciplina trainante, che sapeva parlare all’esterno. Immagina un suo collega di oggi: quale lettura romanistica potrà suggerire a un allievo per quanto volonteroso?

Nelle altre scienze nessuno si può permettere di ignorare le innovazioni. Noi siamo talmente autoreferenziali che sovranamente ce lo permettiamo per anni e per decenni. Però alla lunga queste cose si pagano.

Si parva licet componere magnis, mi viene alla mente la vicenda dell’Unione Sovietica. Nel 1964, mentre uscivano i Mélanges Delbouille, Chruščëv fu destituito; gli succedette Brežnev, poi Andropov, poi Černenko; ogni velleità di rinnovamento nel mondo sovietico fu repressa sistematicamente (dalla Cecoslovacchia nel 1968 alla Polonia dal 1970 in poi); la vita culturale, l’economia, la società stessa progressivamente si inaridirono. Nel 1969, lo ricorderai, Andrej Amalrik pubblicò il pamphlet Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984? Sembrava una fantasia, ma aveva sbagliato solo di pochi anni. Quando giunse al potere Gorbačëv (1985), era già troppo tardi. Certo, dal 1980 con Reagan la guerra fredda si era inasprita; dal 1978 era cominciata sulla Polonia l’azione destabilizzatrice di Karol Wojtyła; ma se l’impero sovietico avesse accettato di seguire la strada aperta nel 1968 da Alexander Dubček, probabilmente non si sarebbe così indebolito sul piano economico, politico, ideale; nessun Reagan, nessun Wojtyła sarebbe stato in grado di minarne le fondamenta.

Qualcosa del genere sta accadendo, più lentamente, alla Chiesa cattolica. Dopo la primavera del Concilio Vaticano II hanno prevalso le spinte restauratrici, altrimenti dette le forze della paura. I fautori del rinnovamento sono stati via via messi ai margini e si è cercato – fin dove era possibile – di tornare all’ordine e alle certezze preconciliari, puntando sul potere (anche politico, economico…) della gerarchia e sull’obbedienza dei fedeli. La Congregazione per la Dottrina della Fede ha emarginato i teologi più innovatori; ad alcuni ha addirittura proibito di scrivere. E sempre di più le gerarchie vaticane, dal 1978 a oggi, vanno lamentando che le chiese si svuotano e i preti sono sempre di meno. Colpa delle forze avverse? Del laicismo, del relativismo? (del comunismo no, non c’è più…). O è la Chiesa stessa che si sta sgretolando dall’interno? che ha dimenticato la sua ragion d’essere? che sa ottenere vantaggi dai potenti ma non sa più dire una parola di amore e di speranza a un mondo che ne avrebbe un disperato bisogno? che non sa più suscitare nei giovani quella motivazione e quella spinta ideale che un tempo si chiamava vocazione?

Paura, aridità, sterilità, arroccamento. Questi sono i tratti distintivi di realtà ben più grandi di noi, ma anche – in microscala – della nostra corporazione. Anche noi continuiamo a imporre una disciplina preconciliare, a rifiutare ogni proposta di filologia dal volto umano.

Ho cominciato il mestiere di filologo romanzo il 1° aprile 1968. Ho visto diversi colleghi proporre idee nuove, a volte geniali; ma, salvo imprevisti dell’ultima ora, andrò in pensione lasciando la comunità dei romanisti allo stesso punto di 43 anni fa.

Caro Corrado, stiamo implodendo. E gli altri ci sguazzano.

Tuo

Andrea Fassò


Bologna, 5 marzo 2011

 

 
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© Società Italiana di Filologia Romanza
Sito a cura di
Carlo Pulsoni e Matteo Viale

ultimo aggiornamento di questa pagina: 12 Marzo, 2011