Gustav Gröber, Le raccolte poetiche dei trovatori, a cura di Giosuè Lachin, Padova, Esedra editrice, 2024 («Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano. Studi e Testi», 2). ISBN 978-88-6058-142-6, 356 pp., 39 euro
A quasi centocinquant’anni dalla pubblicazione sul secondo numero della rivista «Romanische Studien» (1877, pp. 337-670), il saggio Die Liedersammlungen der Troubadours di Gustav Gröber rimane il fondamento imprescindibile delle conoscenze relative alla storia della tradizione manoscritta della poesia lirica medievale in lingua d’oc. Attraverso l’analisi dei criteri di selezione e ordinamento dei testi raccolti nelle sillogi trobadoriche, lo studioso tedesco ha infatti ricostruito la progressiva formazione di tali raccolte poetiche e ne ha delineato i rapporti di parentela, inaugurando un fortunato indirizzo di ricerca complementare alla critica testuale, ormai noto come filologia dei canzonieri o più in generale, data l’applicazione anche a generi diversi da quello lirico, filologia delle strutture (o del macrotesto). Anche in quest’ambito specifico, e cioè già prima del monumentale Grundriss der romanischen Philologie (1888-1906), Gröber merita quindi pienamente l’epiteto di grande sistematore – attribuitogli dal suo allievo più celebre, Ernst Robert Curtius – con cui il suo nome resta scolpito negli annali della filologia romanza. D’altra parte, lo stesso Gröber alla fine di questo saggio ha riconosciuto – sia pure con una più umile metafora a complemento dell’incertezza sui propri risultati, invero in larga parte sostanzialmente confermati dagli studi successivi – di aver «arato a vantaggio di altri studiosi» quello che all’epoca era ancora «uno dei campi incolti della filologia romanza». All’importanza di questo classico sui generis fa tuttavia da contraltare la sua oggettiva difficoltà, più icasticamente apostrofata anzi come illeggibilità da Gianfranco Contini, che ne ha indubbiamente sfavorito la conoscenza diretta e integrale, tanto più con l’andare del tempo, la coltivazione ormai intensiva dello stesso campo di studio, il moltiplicarsi dei rimandi di seconda o terza mano, la minore familiarità con il tedesco da parte delle più giovani generazioni di romanisti. Per l’appunto e nuovamente a vantaggio di altri studiosi, in questo volume si pubblica quindi la traduzione italiana procurata da Giosuè Lachin e gentilmente rivista da Mirjam Mansen, corredata dal rinvio alla paginazione dell’originale in apice dopo una barra verticale. Essa è il risultato dell’esigenza propria del filologo, anche in quanto storico della disciplina, di risalire sempre all’origine e di definire chiaramente la lettera per interpretare correttamente il testo. È la lezione o ancora il vantaggio, il pro derivante dal saber dispensato con largueza, che noi allievi e amici abbiamo avuto l’aventura e il joi di ricevere da Gioe in tante occasioni su innumerevoli questioni,
per cui gli esprimiamo il nostro più vivo ringraziamento con l’aggiunta liminare di questo simbolico “foglio isolato” al libro ordinato unitariamente.