Adamo ed Eva. Le Jeu d’Adam: alle origini del teatro sacro, Edizione critica, traduzione e note a cura di Sonia Maura Barillari, Roma, Carocci, 2010 (Biblioteca medievale, 126).
ISBN 978-88-430-5656-9, 318 pp., 24,00 euro
Il Jeu d’Adam è la prima opera teatrale interamente in volgare tramandataci dalla tradizione manoscritta. Databile attorno alla metà del XII secolo, è conservato in un solo codice del secondo quarto del XIII (Tours, Bibliothèque municipale, n° 927, cc. 20r-40r). Con tutta probabilità di origini anglo-normanne, esso è suddiviso in tre parti aventi quale soggetto, rispettivamente, la tentazione di Adamo ed Eva ed il peccato originale, l’uccisione di Abele da parte di Caino, una ‘sfilata’ di profeti che annunciano l’avvento di Cristo. L’innovazione più decisa, almeno stante la tradizione superstite, è la netta ripartizione degli ambiti riservati al latino e al volgare: il primo preposto da un lato a registrare l’incipit delle lectiones e dei responsori che introducono e scandiscono le sezioni in cui è suddiviso, dall’altro a descrivere l’allestimento e lo svolgimento della messinscena, il secondo riservato al testo recitato dai protagonisti. Un aspetto saliente di tale strutturazione è l’includere quelle che con un anacronismo potremmo definire ‘note di regia’, intese a regolamentare l’esecuzione del testo: vi sono descritti con cura scenografia e costumi, ma soprattutto sono in esse presenti le indicazioni da fornire agli attori affinché la loro interpretazione sia efficace. Una particolare attenzione è rivolta ai tempi dell’azione scenica e alle modalità della recitazione: le entrate e le uscite di scena, l’attacco delle battute, il tipo di gestualità da associare a queste ultime, gli spostamenti che devono compiere gli attanti all’interno dello spazio riservato alla performance. Una peculiarità caratteristica di tali didascalie è costituita dal loro costante porre l’accento sulla natura fittizia della rappresentazione attoriale, ribadendo con insistenza i concetti di infingimento, di simulazione: preoccupazione che, rifiutando il principio ‘classico’ dell’immedesimazione, sancisce una distanza tra l’interprete e il personaggio anticipatrice delle impostazioni teoriche proprie al teatro contemporaneo.